di Marco Marano
Si è insediato il nuovo esecutivo libanese, nato da un accordo di forze gravitanti attorno ad Hezbolla.Si sono presentati come “tecnocrati indipendenti” il cui ruolo è quello di rispondere alle proteste della gente. Ma il popolo non gli ha creduto poiché li reputa affiliati al sistema di potere tradizionale, che ha portato il paese dei cedri alla rovina.
Bologna, 22 gennaio 2020 – Il governo libanese, presieduto dal nuovo primo ministro Hassan Diab, accademico sessantenne, si è insediato ieri martedì 21 gennaio 2020. La composizione è stata definita attraverso un accordo delle forze sciite vicine ad Hezbolla: Amal, e la corrente patriottica libera (CPL), fondata dal premier uscente Michel Aoun. I 20 ministri sono tutti sconosciuti al pubblico, la gran parte sono docenti universitari. Il nuovo premier ha connotato l’esecutivo con l’appellativo di “tecnocrati indipendenti”. La prima riunione di gabinetto si è tenuta oggi, davanti ad un popolo che continua a scontrarsi con le forze dell’ordine, in un paese in pieno collasso economico.
La crisi di sistema
La crisi economica ha infatti assunto proporzioni incontenibili con licenziamenti di massa, restrizioni bancarie fortissime, deprezzamento della valuta, la sterlina libanese. Il debito pubblico ammonta a 90 miliardi di dollari, cioè oltre il 150 percento del prodotto interno lordo. A questa situazione insostenibile ci si è arrivati a causa di una classe politica composta da decenni dalle medesime persone, corrotte e incompetenti, che gestiscono rendite di posizione di tipo economico.
Un programma non creduto
Il nuovo governo si è presentato sottolineando che il compito di questi “tecnici”, come li chiamerebbero in Italia, è quello di rispondere alle proteste del popolo con efficacia. Inoltre il nuovo premier ha voluto segnalare che il suo ruolo e quello dei suoi ministri, è strettamente legato ad un mandato a tempo, assicurando che nessuno del nuovo esecutivo si presenterà alle prossime elezioni.
Non ci saranno clientelismi né tanto meno partigianerie partitiche di nessun genere, osserva Hassan Diab: “Il governo si adopererà per soddisfare le richieste di un potere giudiziario indipendente, per il recupero di fondi sottratti, per la lotta contro le ruberie (…) In questo momento decisivo, saluto la rivoluzione e la rivolta che ci ha spinto verso questa nuova situazione per un Libano vittorioso. Raggiungeremo la coesione sociale. Ci sarà responsabilità”.
Ma il popolo libanese, che da ottobre ha fermato il paese, chiedendo una radicale cancellazione dell’attuale ceto politico, non si è fermato davanti alla notizia della nascita del nuovo governo. Anzi, le proteste, che già da domenica si erano fatte molto violente, dopo un paio di mesi di contestazioni pacifiche, proprio durante l’insediamento del nuovo esecutivo, hanno visto l’esplosione della rabbia nelle strade.
La rivoluzione non si ferma
Nelle piazze sono ritornati canti e slogan con la parola “Rivoluzione!” A Tripoli, metropoli strategica del nord del paese, sono state bloccate le strade, scuole chiuse e notte di tensione. Ma le proteste hanno incendiato tutto il paese. A Beirut in centinaia hanno preso d’assalto la strada principale che porta al Parlamento, respinti da un cordone di polizia. Hanno cercato di rimuovere il filo spinato, mentre veniva scagliata una sassaiola e lanciati dei petardi.
Affiliati al sistema di potere tradizionale
Sia il popolo in rivolta che molti opinionisti di varie estrazioni si sono trovati a condividere lo stesso pensiero sul nuovo governo: possono presentarsi come tecnocrati ma rimangono affiliati al sistema di potere tradizionale. Ebbene ricordare che il sistema politico libanese è congegnato per etnia: il presidente deve essere cristiano maronita, il premier sunnita, il presidente del parlamento sciita. Così, sintetizzava lo stato d’animo popolare un cittadino intervistato dall’agenzia francese AFP: “Rifiutiamo totalmente il governo di Hassan Diab, non è una squadra di tecnocrati indipendenti e non soddisfa le richieste popolari della rivoluzione”. Karen Karem, di 41 anni, ha detto ad Al Jazeera: “Siamo qui perché non ascoltano. Siamo qui perché i nostri genitori hanno vissuto la guerra civile e vivono con meno di 300 dollari al mese“.
Fonti: Al Jazeera, AFP
Immagine in evidenza:Reuters
Credits: AFP