Analisi storica dell’informazione 1943-1993

Le maschere della città coperta

Una città rigidamente coperta dagli interessi dei ceti salottieri riuniti in logge, che hanno tessuto le loro sporcizie invertendo i principi costitutivi della società civile, attraverso l’illegalità che negli anni si è eretta a ordine costituito

VENTO DI MEZZOGIORNO

Quando il vento caldo plana sull’asfalto è come se il tempo si fermasse. I movimenti sono sempre più lenti, le gote iniziano a sudare e la città sembra ridursi ad un involucro da cui è necessario uscire se si vuole respirare. E’ lo scirocco, i pescatori lo chiamano il vento di mezzogiorno, perché proviene da levante. Un vento caldo e umido che soffia in modo costante dai deserti africani. Quando è sul mare la sua potenza è massima, non appena rientra sulla costa s’indebolisce, ma l’aumento della pressione atmosferica rende il clima afoso e umido.

Le terre toccate dai venti del sud

Sono le terre toccate dai venti del sud a rappresentare la spia sociale di un mondo capovolto, non solo nell’area mediterranea ma in tutti i sud del mondo dove i venti caldi e umidi investono le interazioni umane, dove i significati e i significanti assumono dimensioni poco codificabili da quei popoli che il vento non tocca. 

Le regole non scritte

E’ una sorta di comune denominatore che lega le traiettorie geografiche nell’insolvenza di astrazioni cosmiche. Qualcuno parla di regole non scritte, qualcun altro di fisiologico sottosviluppo dei sistemi e delle coscienze, fatto sta che questi popoli raggiunti dal vento del sud si definiscono in funzione di sistemi di significazione simbolica a se stanti, e questo a partire dal potere o per meglio dire dalla concezione del potere…

Le appartenenze

Il Potere è sinonimo di legame appartenenza, parentela, che si tramanda nel tempo. La città viene coperta. I luoghi dove il potere si esplica non sono i palazzi istituzionali, ma sono i salotti, le logge, le consorterie che assumono le conformazioni che meglio si addicono al contesto. L’affiliazione alla famiglia costituisce la credenziale e al tempo stesso la legittimazione per concorrere alla gestione delle risorse. L’appartenenza, l’affiliazione sono elementi fortemente connessi al tessuto culturale, che diventano fondamentali per poter ricoprire un ruolo nella società civile.

I diritti negati

I diritti negati di ogni singolo cittadino, in quanto soggetto individuale, possono essere riscattati solo con l’affiliazione, come semplice oggetto di scambio. E’ un sistema tradizionale, questo, dove la famiglia è il nucleo basilare dell’organizzazione sociale, che in qualche modo esautora il sistema istituzionale. Un sistema che si erge sulle sorti di popoli antropologicamente soggiogati e che amano farsi soggiogare, voltando spesso dall’altra parte lo sguardo quando si tratta di scontrarsi in prima persona con le contraddizioni della propria terra.

Agli albori della massomafia

Nel 1991 incontrai sul mio cammino un uomo che mi avrebbe aperto la mente: il professor Giuseppe D’Urso. Era un ingegnere urbanista, docente all’Università di Catania in Pianificazione urbanistica. Il prof era il figlio di Domenico D’Urso, vicesindaco di Catania nel dopoguerra, alla fine degli anni quaranta. Per intenderci, Domenico D’Urso, apparteneva alla corrente sturziana della Dc, corrente che morirà prestissimo, poiché verrà annientata dal rullo compressore dei fanfaniani di Iniziativa democratica già dal ’53, transfugando poi nella corrente dorotea agli inizi degli anni sessanta.

Ma Domenico D’Urso fu quello che si oppose alla gestione dello sventramento del quartiere di San Berillo, che i poteri forti dell’epoca misero nelle mani dell’Istica, un istituto immobiliare del Vaticano. D’Urso, da vaticanista, ma anche da uomo la cui mission era la salvaguardia del bene pubblico, aveva combattuto invano affinché l’operazione venisse gestita dal nuovo ente pubblico che nasceva in tutta Italia proprio in quel periodo: l’Istituto Autonomo Case Popolari. Domenico D’Urso uscì di scena e la storia di San Berillo diventerà uno dei più vergognosi scandali dell’Europa occidentale, che vide vent’anni di speculazioni edilizie, con una deportazione interna, in un altra zona della città, di migliaia di famiglie, in aggiunta all’annientamento delle attività artigianali tramandate da generazione in generazione.

Così, il professor Giuseppe D’Urso, che da bambino e poi da ragazzo e ancora da adulto era stato dentro il sistema di potere locale, lo aveva vissuto in prima persona ma anche subito, ad un certo punto della sua vita smise di fare l’imprenditore per indirizzarsi alla docenza. Dopo una fase in cui si legò al partito socialista, alla fine degli anni sessanta, dieci anni dopo inizierà a “dare di matto”, denunciando tutte le porcherie del sistema di potere locale, smascherandole. Collaborò con I Siciliani di Pippo Fava, all’interno del quale analizzo le trame storiche della città coniando il cincetto di “massomafia”. In pratica mi ritrovai a scrivere le sue memorie, che poi non erano le sue memorie ma quelle della città, che lui definiva “Città coperta”. Memorie, è bene ricordarlo, che spesso lo avevano visto dentro queste storie, direttamente o indirettamente. Quando lo conobbi lui era malato da qualche tempo. Una malattia degenerativa, per cui doveva restare a letto dietro cure mediche continue.

La prima volta che lo vidi era proprio nella stanza di una clinica privata. Incredibile che ricordo: sulla sua destra c’era un fax ed una piccola fotocopiatrice, sulla sua sinistra le ceste con i progetti dei suoi studenti laureandi. Davanti poi c’era una sorta di archivio con documenti vari. Più che una stanza sembrava un ufficio. E infatti quest’uomo condannato a stare a letto sembrava un leone.

Contemporaneamente seguiva i suoi studenti, insieme agli assistenti, e nel frattempo costruiva la sede catanese della nascitura Rete, l’organizzazione politica di Leoluca Orlando, che in quella fase vide protagonista Claudio Fava.

POCO FA DUE MORTI E QUATTRO FERITI A LIBRINO…

Catania, 7 agosto 2020

Mentre nella parte ricca della città e nelle frazioni a mare si svolge il rituale del sabato sera, tra serate, musica e vacanze, a Librino sembra essere scoppiata nuovamente la guerra. Due gruppi di persone si fronteggiano con le armi ed aprono il fuoco: e rimangono per terra due morti e quattro feriti.

Giovani che cadono sotto il fuoco delle armi come accadeva negli anni 70-90. Nei quartieri, dove il traffico della droga coi suoi flussi costanti di denaro sembrava aver pacificato i rapporti di potere criminale, si torna a sparare. Segno che la dimensione militare è ancora viva.

Che si gira armati. Che si attendono gli eventi. Ce ne eravamo dimenticati di cosa era Catania ai tempi delle guerre di mafia, quando ogni anno si contavano cento e più omicidi. Ma non dobbiamo mai dimenticare che i fenomeni e le storie criminali, come tutti i fatti umani, sono soggetti a ciclici ricorsi.

Dunque nulla è sepolto per sempre, e tutto ciò che sta dietro le nostre spalle non è semplicemente passato: può tornare ad essere la chiave di lettura con la quale comprendere ciò che può aspettarci, per non farsi trovare impreparati. Speriamo che ciò che accade a pochi chilometri dalla parte della città più ricca non ci lasci indifferenti: come se fosse soltanto cosa loro…

Sebastiano Ardita

FONTE Facebook

Credit Facebook

Narrando

Il professore D’Urso, nei momenti di relax mi dettava queste memorie. Racconti sugli intrighi della Città coperta, a partire dal 1943, quando un ufficiale inglese arrivò in casa sua a cercare il professore. Il professore in questo caso era Domenico D’Urso suo padre, un insegnante di Italiano. Un incontro che quell’ufficiale inglese, capo delle forze alleata distanza a Catania, fece anche con altri personaggi cittadini: i vaticanisti, come il professore Domenico D’Urso e i massoni, iscritti al rito scozzese.

A questi uomini fu chiesto di partecipare alla ricostruzione del sistema politico locale… Memorabile fu il caso del Marchese Paternò Castello di San Giuliano, appartenente alla più antica famiglia massonica, che aveva sfornato generazioni di sindaci dall’unità al fascismo. Infatti egli era stato podestà fascista prima e sindaco per nomina degli alleati della città liberata dopo… E questo incontro cercai di descriverlo nei minimi particolari, e quando elaborai il testo lo romanzai al punto giusto, senza esagerare.

A lui piacque, anche se a qualche collega gornalista, a cui l’aveva fatto leggere, era parso troppo narrativo. In quel senso io mi ispiravo allo stile dei libri di Bob Woodward, il cronista dello scandalo Watergate, mio mito giovanile. In quel periodo lavoravo anche alla tesi di laurea sulla trattazione televisiva della guerra del golfo, e m’imbattei nel libro di Woodward, che raccontava il dietro le quinte dello scoppio della guerra. Uno stile asciutto ma che si lasciava andare al racconto. La descrizione dei fatti incorniciati nei particolari, come si fa nei romanzi…

Mi piacque quello stile e cercai di sperimentarlo, usando la storia del prof come luogo di elaborazione. Accumulai in un periodo di credo quattro o cinque mesi, ma forse anche di più, incredibilmente non ho memoria certa, un centinaio di fogli dattilo scritti in forma di appunti ripuliti. Poi le condizioni del professore peggiorarono al punto tale, che non ebbi neanche modo di salutarlo. Mancò nel 1996.

Per sporcarsi le scarpe

“Sporcarsi le scarpe” è il viatico unico ed essenziale per imparare il mestiere di cronista. Cosi fu che tra il 1989 e il 1992, fase finalizzata a raggiungere l’iscrizione all’albo dei giornalisti, divenni cronista di un quotidiano della sera di Catania: l’Espresso Sera. Era una testata storica, poichè agli inizi degli anni settanta il capocronaca era stato proprio Pippo Fava.

Il paradosso sta nel fatto che quello era un giornale edito dallo stesso editore de La Sicilia, cioè la voce ufficiale del sistema massomafioso locale. Ora, da antimafioso, scrivere in un giornale edito da uno dei promotori del sottosviluppo catanese, non era una delle mie migliori aspirazioni. Ma questa in realtà era solo una delle chiavi di lettura. All’Espresso Sera trovai ad accogliermi un capocronaca sui generis: il buon Salvo Barbagallo. Vecchio cronista, legato al partito socialista di Craxi, il suo ruolo lì dentro non lo riuscii mai ad interpretare. Si, perché ad un certo punto Barbagallo si mise in testa di insegnarmi il mestiere.

Fu così che mi mandò in giro per i comuni etnei a fare reportage, insieme ad un giovane fotografo, di cui sfortunatamente ho dimenticato il nome, scorazzando per chilometri e chilometri con una Fiat 500. Parliamo di un periodo in cui solo a Catania c’erano una media di 120 morti ammazzati l’anno. E l’area provinciale per certi versi era più selvaggia, soprattutto in quello che veniva denominato il “triangolo della morte”, che riuniva tre comuni adiacenti, dove le guerre di mafia erano continuative: Adrano, Biancavilla e Paternò.

E non parliamo di Misterbianco, patria del “Malpassotu”, cioè l’uomo di Santapaola che governava quel pezzo di territorio… Ma così come Barbagallo aveva deciso di farmi sporcare le scarpe, e di questo gliene sarò per sempre grato, ciò che non riuscivo a capire era il fatto che pubblicasse i miei pezzi senza censure, garantendo il mio linguaggio da denuncia, contro la mafia, senza peli sulla lingua… Solo una volta in due anni e mezzo mi censurò. Era uno dei tre pezzi dedicati all’omicidio un leader democristiano del comune di Misterbianco. Un pezzo, la cui bozza ho recentemente e forse miracolosanmente ritrovata e che è possibile leggere a seguire…

Un assassinio emblematico

12 ottobre 1991 – Le vicende amministrative del comune di Misterbianco, negli ultimi vent’anni, sono state caratterizzate da una serie di sommovimenti istituzionali, che hanno segnato i percorsi politici, in linea con un progetto di scalata al potere da parte della Democrazia cristiana. Alla guida di questa operazione vi è la struttura forte e consolidata dell’apparato scudocrociato, cioè la corrente andreottiana, guidata a Catania dall’On. Nino Drago. Siamo negli anni settanta. La maggioranza assoluta in seno al consiglio comunale appartiene al partito comunista. E’ questo il periodo in cui il disegno del compromesso storico tracciato da Enrico Berlinguer iniziava a sorgere con il “governo della non sfiducia”.

Ma l’intesa che avrebbe dovuto portare i comunisti dentro il governo nazionale, era osteggiata da ampi settori democristiani, tra cui gli andreottiani, il cui leader guidava un governo monocolore. Con l’omicidio di Aldo Moro, sostenitore del compromesso storico, si tornava al passato… In una strana proiezione degli accadimenti contestuali Misterbianco si avviava verso una fase di ridefinizione degli assetti. Drago aveva bisogno di un uomo forte per competere con i comunisti.

Un uomo che conosceva intimamente la politica locale e i suoi meccanismi di controllo. Un uomo che godeva del rispetto della cittadinanza. E chi se non Paolo Arena poteva assolvere a questo compito? Segretario comunale del partito e consigliere comunale.

Nel ’75 Arena non si candidava alle amministrative, al fine di guidare dall’esterno la scalata della Dc ai vertici del potere locale. Del resto i consiglieri democristiani facevano tutti riferimento a lui. Nella consultazione elettorale dell’80 l’operazione innescata cinque anni prima andava in porto in modo tecnicamente perfetto: la Dc riusciva a guadagnare la maggioranza relativa. Arena veniva consacrato grande manovratore.

Si formava un bicolore Dc-Psi, nel quale egli rifiutava la carica di sindaco, che veniva ricoperta da un socialista. Lui, Arena ricopriva la carica di vicesindaco, ma anche di assessore ai lavori pubblici… Così fino al 1985, quando ancora una volta Arena restava fuori dal consiglio comunale, pur essendo il “padrone della città”.

E poi c’è l’alleanza con il pci, che tra alti e bassi darà alla luce ben due giunte, fino al commissariamento del comune. Alle ultime elezioni il partito di Arena stravinceva, ritornando al bicolore con i socialisti. Questa volta la sindacatura passava nelle mani democristiane, il cui primo cittadino per sua stessa ammissione dichiarava di essere impossibilitato a governare poiché arenatosi sulle sponde degli appalti per le opere pubbliche, settore vitale del tessuto cittadino.

All’immobilismo politico-amministrativo si aggiungeva l’impennata della criminalità mafiosa, negli ultimi due anni, e del conseguente spargimento di sangue. Una fase questa innaugurata con l’assassinio di Mario Nicotra, detto “U Tuppu”. Nicotra era praticamente una sorta di boss carismatico del paese, senza essere legato a nessun clan dell’area metropolitana. Si vedeva spesso in Municipio, poiché aveva una ditta di manutenzione stradale utilizzata, a quanto si dice, dall’Assessorato ai lavori pubblici. Era un uomo che riscuoteva grande popolarità e credibilità. Un anno e mezzo fa Nicotra veniva fatto fuori a colpi di lupara, per cui questa è stata la dimostrazione che le organizzazioni mafiose stanno combattendo per la supremazia nel territorio di Misterbianco. *Accusato dell’omicidio Nicotra è un uomo della scuderia del “malpassotu”, il colonnello del boss catanese Santapaola, legato ai corleonesi.

Ma due mesi prima veniva trucidato il geometra dell’ufficio sanatoria del Comune, Nicola Di Marco, ucciso con una dinamica spettacolare, dopo essere stato inseguito per mezzo paese. Ma ci sono stati anche altri omicidi, a Misterbianco, questa volta incomprensibili. Come quello di Vittorio Cardia, un tranquillo garagista, che forse si sarà trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Poi c’è stato l’omicidio di Giuseppe Mirabella, lo scorso mese come Cardia…

La guerra delle cosche, tra “U Tuppu” e “U Malpassotu”, per il controllo del sistema territoriale, anche burocratico degli appalti, diventa quindi la cornice dell’omicidio Arena, probabilmente rimasto imbrigliato nei rapporti tra il clan vincente e quello perdente… Una storia questa che definirà gli equilibri futuri della zona.

*Il nome è stato omesso per il diritto all’oblio

Basta lasciar parlare i fatti…

Come è possibile vedere, il pezzo che Barbagallo mi censurò non è che poi rivelasse qualcosa di scabroso. Era una semplice ricostruzione degli ultimi vent’anni al fine di contestualizzare la figura di quel personaggio all’interno di un quadro logico. La semplice messa in fila dei fatti, uniti ad una conclusione deduttiva, che poi è il lavoro del giornalista, diventava destabilizzante…

Si, perché se la conclusione era che Arena, da uomo del clan perdente, passato con il clan vincente, aveva pagato “lo sgarbo”, questa era una verità tanto semplice quanto puerile.Tra l’altro, nel pezzo, non era nenche esplicitata fino in fondo… Ma che nella guerra tra cosche, fosse maturato l’omicidio di un “uomo di peso”, dopo tutto quello accaduto a Misterbianco , questa era una certezza disarmante…

Ma a quel tempo nessuno poteva dare una risposta logica, dato che Arena era un uomo di Drago, imperatore di Catania, proconsole di Andreotti nella Sicilia orientale, il corrispettivo di Lima a Palermo. Quindi era impensabile poter pubblicare quel pezzo… Così, volente o nolente, il buon Barbagallo mi insegnò la regola base del giornalismo: non c’è niente di più destabilizzante che mettere in fila i fatti…

La cosa straordinaria è che la verità è uscita completamente alla luce il 30 aprile 2019, dagli ultimi passaggi giudiziari che hanno visto i pentiti chiarire la vicenda. E’ stata confermata, in qualche modo, la nostra deduzione, sulle cause di un omicidio fatto inizialmente passare per “misterioso”, anche se noi, almeno, lo abbiamo reso “emblematico”.

Le maschere della città coperta