Viaggio oltre il senso del luogo, alla scoperta dei temi sociali, dentro i mondi urbani del nostro tempo
SOCIAL REPORT 2009/2014
di Marco Marano
Raccontare le città in movimento
I Social Reportage presenti in questo lavoro sono stati prevalentemente realizzati, sulla scia di progetti internazionali inerenti al tema dell’inclusione sociale nelle città, accolti dentro il progetto editoriale on-line “Radio Cento Mondi.
La costruzione del modello narrativo legato al “Social Reportage”, così come lo abbiamo specificatamente ridefinito, si sviluppa attraverso il tentativo di individuare una chiave di lettura che permetta di entrare dentro il senso della città, scoprendo la sua significazione nella dimensione quotidiana in movimento. Cioè, nel momento in cui la città si muove diventa possibile intercettare, nelle sue varie forme ed espressioni, quelle assonanze che costituiscono il contenuto di senso della stessa. Ecco perché l’angolo visuale è puntato sulla distanza tra il quotidiano della gente e le leggi emesse dall’autorità costituita.
Le dinamiche dei piani di racconto, tra testo e immagini, si completano sinergicamente poiché la ricerca delle immagini viene pensata nella direzione di una forte strutturazione tra significato e significante. L’obiettivo è quello di raccontare una città nel rapporto tra quotidiano e sistema sociale, mostrando immagini in movimento. In tal senso, la logica sottesa all’impaginazione del reportage, è più legata al concetto di story board che altro, poiché non si usano gli approcci classici che tutti i giornalisti adottano: costruire una scaletta o scrivere a getto. Con i Social Reportage si parte dalle foto, a cui si associa un titolo e da cui si sviluppa il paragrafo.
Ogni fotografia racconta una storia e tutte insieme raccontano il mondo, nel senso che con le immagini di una città qualsiasi dell’oggi possiamo, in qualche modo, comprendere un pezzettino del nostro quotidiano, secondo un’accezione trans-culturale… L’aspetto giornalisticamente interessante è che ogni contenuto di senso di cui qualsiasi città è portatrice deve necessariamente fare i conti con la sua dimensione nazionale, la qualità dei suoi governi, l’efficacia delle sue leggi e soprattutto il rapporto tra popolo e autorità.
Lo strumento del social reportage, attraverso la costruzione dei piani di racconto, tra contenuto e forma, consente di soffermarsi su aspetti determinanti della città e del suo contesto sociale nazionale, senza la pretesa di voler approfondire la complessità del luogo raccontato. Ecco perché occorre una unica fonte in loco, finalizzata ad individuare le caratteristiche fondanti della dimensione metropolitana, il resto lo racconta la città stessa, con le immagini che offre ogni giorno.
L’ASSENZA DI EUROPA NELLA STRATEGIE DI INCLUSIONE SOCIALE
Le città europee strette tra la logica della fortezza e le differenti velocità di sviluppo
1 ottobre 2014
IN OBITUM MARE
“Il nostro messaggio è chiaro: tanti migranti stanno morendo, è arrivato il momento di fare di più che contare il numero delle vittime. E’ tempo di fare fronte comune affinché i migranti in gravi difficoltà non debbano subire violenze.”
A parlare è il Direttore Generale dell’OIM William Lacy Swing; parole dure le sue a corollario del “Fatal Journeys”, il rapporto dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, da cui escono fuori i dati raccapriccianti dei morti nel Mediterraneo… Il rapporto è stato effettuato nell’ambito del progetto “Missing Migrants Project”, e mostra come l’Europa sia la destinazione più pericolosa al mondo. Infatti dal 2000 sono oltre 22.000 i migranti che vi hanno perso la vita, di cui 4.000 dall’inizio del 2013.
L’ASSENZA DI CITTADINANZA EUROPEA
Sembra estremamente chiaro che le ragioni di questa ecatombe siano concentrate sull’assenza di Europa… In questa sorta di ostentazione culturale a voler essere una fortezza impenetrabile nei confronti di chi decide che il viaggio diventa l’unica soluzione possibile per difendere la propria incolumità fisica. Non si tratta semplicemente del mancato rispetto dei trattati internazionali o dell’articolo 10 della Costituzione, per ciò che concerne l’Italia… Non si tratta neanche della precarietà economica, che da anni flagella i popoli europei, specialmente quelli nel bacino del Mediterraneo, che fanno emergere gli egoismi sociali stigmatizzati da partiti e movimenti di matrice razzista e xnofoba. Non si tratta di questo… Il problema vero è l’assenza di una logica identitaria della dimensione europea, perché la costruzione di un modello di cittadinanza omogeneo è un tema legato alla mission dei programmi europei che erogano i fondi strutturali, ma non alle politiche perseguite dai singoli stati. Su questa contraddizione in termini si giocano i destini dei popoli…
LA CARTA DI LAMPEDUSA
Forse è anche per questo motivo che quello che non fanno gli stati cercano di farlo i cittadini, e a proposito di migranti, la “Carta di Lampedusa” ne è l’esempio più calzante.
“La Carta di Lampedusa è il risultato di un processo costituente e di costruzione di un diritto dal basso che si è articolato attraverso l’incontro di molteplici realtà e persone che si sono ritrovate a Lampedusa dal 31 gennaio al 2 febbraio 2014, dopo la morte di più di 600 donne, uomini e bambini nei naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, ultimi episodi di un Mediterraneo trasformatosi in cimitero marino per le responsabilità delle politiche di governo e di controllo delle migrazioni. Da molti anni le politiche di governo e di controllo dei movimenti delle persone, elemento funzionale alle politiche economiche contemporanee, promuovono la disuguaglianza e lo sfruttamento, fenomeni che si sono acuiti nella crisi economica e finanziaria di questi primi anni del nuovo millennio. L’Unione europea, in particolare, anche attraverso le sue scelte nelle politiche migratorie, sta disegnando una geografia politica, territoriale ed esistenziale per noi del tutto inaccettabile, basata su percorsi di esclusione e confinamento della mobilità, attraverso la separazione tra persone che hanno il diritto di muoversi liberamente e altre che per poterlo fare devono attraversare infiniti ostacoli, non ultimo quello del rischio della propria vita.”
Eliminare il problema della morte in mare è estremamente semplice, diventa però complicato in una Europa assente di identità comune, perché la proposta del corridoio umanitario è quella più efficace e sostenibile, ma non si capisce per quale motivo, all’interno delle istituzioni europee, non si riesce neanche a parlarne… In breve, basterebbe creare delle sedi dell’Unhcr e dell’Ue sulle coste del nord Africa per l’accoglimento lì delle domande di protezione internazionale, eliminando alla base la necessità di traversare il mare mediante i trafficanti.
LE BUONE PRASSI SULL’INCLUSIONE SOCIALE
Ma torniamo alla contraddizione segnalata inizialmente, cioè quella di una Europa le cui istituzioni erogano programmi virtuosi, ma i cui stati si ostinano ad affrontare i temi sui processi migratori senza ricercare una strategia comune altrettanto virtuosa. Se questo è lo scenario c’è da dire che, dentro il contesto europeo, l’inclusione di quei migranti che riescono a sfuggire alla morte dal proprio paese e dal viaggio di fuga, viene gestita con modelli di gestione differenti, a seconda dell’organizzazione sociale di cui i singoli paesi si sono dotati.
Per comprenderne a fondo le dinamiche ci viene in aiuto proprio un progetto europeo conclusosi da poco, dal titolo “Mistra – Migrant Inclusion Strategies in European Cities”, finanziato dal programma Lifelong Learning e realizzato attraverso la rete europea di enti pubblici e privati MetropolisNet. Attraverso questo progetto sono state individuate delle città europee esportatrici delle proprie migliori prassi sull’inclusione sociale dei migranti verso città meno attrezzate allo scopo. La prima indicazione interessante è che le principali città esportatrici appartengono al nord Europa, mentre quelle che hanno importato sono state dell’est o dell’area mediterranea. Ma il punto non è quello di accendere i riflettori sulle difficoltà dei paesi di nuova entrata nell’Unione Europea o di analizzare il livello di corruzione dei paesi mediterranei, che inficia qualsiasi modello di sviluppo sociale. La questione è invece incentrata sulle logiche, anzi potremmo dire sui paradigmi, che definiscono un modello virtuoso di inclusione sociale.
UNA IDEA DI SOCIETA’: INTERCULTURA, DIVERSITA’, APERTUR
A Berlino esiste, ad esempio, “Berlin braucht dich”: Berlino ha bisogno di te. Già, è proprio la denominazione di questo organismo pubblico, finalizzato ad orientare, formare e inserire nel mondo del lavoro giovani con background migratorio. Attraverso questo ente è stata creata una rete, in una città è bene ricordarlo dove una persona su quattro è di origine straniera, tra 32 scuole e una cinquantina di aziende, per fare incrocio tra domanda e offerta di lavoro. Ma perché questa denominazione? Perché Berlino dice di aver bisogno dei giovani con background migratorio? Per il semplice fatto che essendo una città mondialista, come tutte le metropoli europee, ci sono tantissimi giovani che crescono in famiglie che non conoscono né la cultura della città né il panorama occupazionale, non riuscendo ad entrare in contatto col mondo del lavoro. Ecco che questa rete di aziende ha convenuto che i presupposti di una società giusta e sostenibile, nel mercato del lavoro, sono la partecipazione e le pari opportunità, e che utilizzare la diversità diventa un valore aggiunto per l’intero sistema sociale, anche in termini di accoglienza e benvenuto alle nuove generazioni. Intercultura, diversità, apertura diventano i fattori chiave del processo di sviluppo metropolitano, che devono essere favorite poiché questa è la realtà dell’oggi. L’idea di società sottesa è che “i nuovi arrivati” non devono essere integrati in un sistema omogeneo, ma è la società che deve trovare la sua forza proprio nelle differenze. Le aziende non fanno molto caso ai paesi di provenienza, anzi, in alcuni settori come quello immobiliare, i giovani con background migratorio sono ricercati perché la clientela è spesso straniera, quindi i dipendenti non solo possono comunicare linguisticamente in modo dinamico, ma alcune volte si pongono in termini di mediazione culturale.
L’ACCOGLIENZA COME MODELLO DI SOSTENIBILITA’ SOCIALE
Era il 1995 quando a Vienna nasceva l’Integrations Haus, e questo di per se è un elemento interessante, non fosse altro perché ancora non era stata inaugurata la stagione delle grandi convenzioni europee, da Lisbona 2000 in poi, nelle quali venivano lanciate parole d’ordine come coesione sociale, integrazione, sostenibilità e via discorrendo… Si, perché l’Integrations Haus è oggi considerata una buona prassi europea nell’ambito dell’accoglienza e inclusione dei richiedenti asilo e dei possessori di protezione internazionale, realtà ante litteram circa i criteri di accoglienza dei migranti.
Struttura finanziata dal Ministero della Salute e dell’Educazione, dalla municipalità, dall’Unione Europea e da donazioni private, essa si muove all’interno di una rete pubblico/privata, le cui modalità organizzative consentono azioni di raccolta fondi anche attraverso campagne promozionali sul territorio. L’organizzazione di eventi e i dibattiti pubblici sono, in effetti, tra i principali strumenti di lavoro, poiché anche, e forse soprattutto, attraverso essi l’Integrations Haus propone sul territorio la sua azione di lobby istituzionale. E’ così, infatti, fornisce pareri su progetti di legge, tratta con i decisori politici, attivandosi per contribuire a costruire processi di miglioramento delle condizioni giuridiche e sociali dei migranti. Dal punto di vista dell’erogazione dei servizi l’approccio utilizzato è di tipo integrato, sia per ciò che concerne le metodologie di lavoro che per i servizi. Le due direzioni intraprese si sviluppano in termini di azioni supporto psico-sociale e di orientamento al sistema culturale locale, dall’alfabetizzazione linguistica alla formazione-lavoro, con progetti specifici di integrazione socio-lavorativa. Poi, vi è tutta la parte legata alle attività culturali e ricreative più generali.
UN PATTO TERRITORIALE PER INCLUDERE
Il sistema residenziale è costituito da 38 alloggi e possono contenere un massimo di 110 persone, ovviamente gli alloggi sono suddivisi per dimensioni e per tipologia di nucleo familiare: da un minimo di due posti letto ad un massimo di 6. Ogni alloggio ha un suo angolo cottura e una lavanderia, mentre docce e servizi igienici sono in condivisione. Gli ospiti sono liberi di ospitare persone esterne, che però devono registrarsi alla reception. Gli operatori dell’equipe che gestisce l’edificio, appartengono all’associazione Caravan, sono multilingue e supportano i residenti in tutti gli aspetti della vita quotidiana, oltre che per le procedure di richiesta della protezione internazionale. Il tratto distintivo dell’Integrations Haus è il modo innovativo di lavorare, perché attraverso i finanziamenti europei possono essere finanziate tutte quelle nuove idee che rispondono ai bisogni territoriali, ed in questa direzione va la collaborazione con un’altra realtà significativa: “Start Vienna”. “Chiunque arrivi a Vienna può chiedere un incontro per una consulenza lavorativa!” E’ questo lo slogan del WAFF, Fondo per la promozione dell’occupazione di Vienna, una struttura sottoforma di “patto territoriale” tra i soggetti produttivi della città, finalizzata ad accogliere gli stranieri che arrivano in città per supportarli in questo loro nuovo inizio…
L’INNOVAZIONE, I DIRITTI E I COSTI SOCIALI
Se dunque all’esterno l’Europa si propone in termini di fortezza, per una incapacità sistemica a munirsi di una strategia virtuosa nei confronti dei fenomeni migratori, stridono le doppie, triple o quadruple velocità con cui le città europee affrontano i temi delle differenze, in termini di gestione territoriale. Eppure abbiamo visto come Berlino e Vienna si sono allineate perfettamente ai paradigmi usciti fuori dalle convenzioni europee degli ultimi 15 anni… Sostenibilità, coesione sociale, intercultura, pari opportunità non sono semplicemente delle parole d’ordine ma definiscono la capacità di trasformazione e cambiamento dei territori rispetto ai processi sociali del nostro tempo.
Ma in che termini queste parole chiavi determinano cambiamento? E, cosa ancora più importante, tale cambiamento può essere riproducibile in città meno attrezzate, dal punto di vista dell’organizzazione sociale? Dalle due buone prassi del progetto Mistra possono essere estrapolati importanti elementi: innalzamento dei diritti e delle forme di uguaglianza, abbassamento dei costi sociali. Ecco quali sono le logiche che dovrebbero sottendere al concetto di cittadinanza europea smarrita. Perché in un momento storico di crisi economica sistemica, la vera innovazione sociale europea non può che passare dalla salvaguardia dei diritti armonizzati ai costi sociali, e qualsivoglia progetto di sviluppo territoriale delle città e su questi elementi che dovrebbe rifondarsi.
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PER LE STRADE DI BUDAPEST
6 ottobre 2011
I SUONI E I SAPORI DELLE STRADE
Camminando per le strade di Budapest si respira l’Europa. La sua storia, le sue tradizioni, il suo sistema architettonico la rendono elegante, con quel suo modo altezzoso di porgersi a chi non la conosce. Ma nella capitale magiara si respirano anche sapori multietnici. Le strade sono colme di segnali propri a culture diverse, con i linguaggi costruiti su grammatiche anche lontane che diventano parte integrante degli spazi urbani, in quello che sembra un vero e proprio luogo di contaminazione. Percorriamo lo slargo dell’Oktogon, indirizzandoci verso la stazione ferroviaria, camminiamo sull’arteria centrale, la Teréz Körút, incuneandoci, di tanto in tanto, tra le strade adiacenti. Troviamo locali, scritte, messaggi visivi legati a paesi diversi. C’è il kebab arabo o il ristorante messicano. C’è anche una tavola calda buddista, di fronte al ristorante turco. E ancora la teeria tibetana qualche decina di metri più avanti di un locale greco e giapponese, ma c’è anche il Cafe factory, e, proprio dentro la stazione, c’è un McDonald al piano inferiore ed un “cappuccino italiano” al piano superiore, collegati da una specie di ammezzato.
LA REALTA’ SOCIALE DISTANTE DAL SISTEMA POLITICO
Vista così la cosa sembra assolutamente normale nel mondo d’oggi, ma se si vanno a leggere le modalità di gestione territoriale della città, nel contesto degli eventi nazionali, sembra, camminando per le strade di Budapest, che la realtà sociale sia tutt’altro da quella politica. Questa strana forma di schizofrenia si allinea alla perdita dei punti di riferimento di tutta la governance europea, molto impegnata a far quadrare i conti e pochissimo a monitorare le conquiste legate ai diritti di cittadinanza tipici della civiltà liberale, come anche quei criteri di giustizia sociale atti a garantire il popolo.
LA LEGISLAZIONE OBSOLETA
Dalla caduta del regime comunista all’entrata dell’Ungheria nell’Unione Europea, il sistema legislativo, in tutti i suoi comparti, non è mai stato adeguato al nuovo tempo storico. Si pensi alla stessa carta costituzionale, che non è mai stata riscritta, ma solo emendata con degli elementi tipici dello stato di diritto, come la separazione dei poteri. E questa situazione magmatica ha permesso, proprio pochi mesi fa, alla schiacciante maggioranza parlamentare di estrema destra del Fidez, il cui leader è Viktor Orbàn, di riscrivere una costituzione ultranazionalista che si fonda sulla dimensione etnica dell’essere cittadino ungherese a prescindere da quale paese si trovi. Questo significa riprendere il mito dell’impero, riaccendendo motivi di conflitto con alcuni paesi limitrofi e limitando i diritti di chi non è ungherese.
UN PAESE SFORNITO DEI DIRITTI DI CITTADINANZA
Il vicesindaco di Budapest, nonché assessore agli affari sociali e sanità, Tamas Szentes, del partito Fidez, all’interno di un workshop internazionale, legato ad un progetto europeo dal titolo “Lecim”, ha spiegato come funziona il sistema di welfare territoriale. O per meglio dire ha spiegato che in Ungheria, allo stato attuale, non esistono quei diritti acquisiti, in quanto popolo, tipici della tradizione democratica europea .Prendiamo il sistema sanitario nazionale ad esempio, infatti è emblematico il fatto che i servizi sanitari gratuiti sono assicurati non a tutti indistintamente e neanche a chi è in uno stato di indigenza o ha un basso reddito, ma solo a coloro che hanno un lavoro stabile, quindi un reddito e possono pagarsi una sorta di “assicurazione sanitaria”. Occorre, insomma, essere ungherese ed avere un lavoro stabile per poter avere assicurati i diritti di cittadinanza: un paese come questo ha presieduto l’Unione Europea i primi sei mesi del 2011. Ma livello locale che tipo di ricadute vi sono sul territorio?
LO SCOLLAMENTO TRA ISTITUZIONI E SOCIETA’ CIVILE
Tra gli operatori sociali della città, è palpabile lo scoramento, a causa della loro condizione professionale, e malgrado questo cercano di mantenere alta la loro personale motivazione. Esiste infatti una situazione di grande scollamento tra il corpo istituzionale e la società civile organizzata, come le associazioni o le ong, sia per l’assenza di quadri normativi evoluti, ma anche per il fatto che essi non hanno interlocutori istituzionali per attivare azioni sul territorio legate alle parole d’ordine europee come coesione sociale, inclusione, integrazione… Considerato che queste organizzazioni sono le uniche a proporsi, dentro i 23 distretti urbani, come portatori di “welfare state”, in quanto soggetti privati però, la fotografia che esce fuori è estremamente controversa…
ANCHE LA GRECIA NON SEMBRA TANTO LONTANO
Ma camminando per le strade di Budapest anche la Grecia non sembra tanto lontana, nel senso che sono due facce di una stessa medaglia, e il fallimento del sogno europeo ne rappresenta il conio. Il default greco ha come prodromo un governo elitario o oligarchico che non ha mai pensato a fare riforme strutturali, che ha individuato i ceti medi come gli unici designati a pagare, lasciando fuori, ad esempio, la casta degli armatori, potente lobby politico-economica. Così la Grecia rischia di uscire fuori dall’euro, l’Ungheria non può nemmeno pensare di poterci entrare, e a catena vi è il rischio che i paesi deboli come l’Italia, la Spagna e il Portogallo vengano travolti dalla crisi del capitalismo.
LA CRISI DEI SISTEMI LIBERALI
Ma prima di essere crisi del capitalismo questa sembra essere la crisi dei sistemi liberali che continuano a garantire le oligarchie a danno dei popoli, così come la governance europea ha fallito nel pensare che sollecitare i paesi a far quadrare i conti poteva bastare; e invece no, occorreva stimolare le nazioni a far quadrare i conti sulla base dei precetti della giustizia sociale, elemento sostanziale di ogni sistema democratico.
Credits Marco Marano
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FORTALEZA E I NUOVI CONQUISTADORES
Nel 2008, in seguito al progetto emiliano-romagnolo di cooperazione decentrata “Adote Um Ritmo”, sui temi legati all’inclusione sociale dei minori, in tre città del nord est brasiliano, promosso dall’associazione Orchestra do Mundo e dal Comune di Bologna, il vicesindaco di Fortaleza Gloria Diogenes, ha rilasciato questa intervista, ancora oggi di estrema attualità. I temi trattati riguardano un fenomeno che ha reso Fortaleza una delle capitali mondiali, insieme a Bangkok: il turismo sessuale. Un fenomeno odioso poiché coinvolge ragazzine dai dodici anni in su, che cercano una sorta di riscossa dal proprio status familiare o sociale attraverso il proprio corpo. Questo fenomeno, che rientra nella più generale categoria degli abusi sui minori, è fomentato da uomini provenienti da tutto il mondo, e specialmente dall’Italia, che si ergono a “nuovi conquistadores”, poiché esprimono le loro perversioni in luoghi diversi dai propri.
LA LOTTA CONTRO GLI ABUSI SESSUALI SUI MINORI
Dopo la riconferma del sindaco Luizianne Lins a Fortaleza, considerato che il fenomeno del turismo sessuale è la principale attrazione cittadina, quali misure l’amministrazione ha inteso prendere
Il nostro primario obiettivo non è stato quello di combattere il turismo sessuale di per se, ma piuttosto l’abuso sessuale sui minori. E’ ovvio che i due fenomeni sono legati, non dimentichiamo però che il problema è principalmente legato alla popolazione locale. La domanda da porsi è perché le ragazzine preferiscono il turista piuttosto che l’uomo locale? Il turista viene visto come possibile, veicolo per un cambiamento radicale e un mutamento di vita, una frase che si sente spesso è “io ho un fidanzato italiano e uno argentino”… Questo vuol dire che c’è un turismo stagionale di persone che vengono qui regolarmente. Ma questo particolare fenomeno non va visto come un semplice rapporto di transazioni finanziarie, perché le nostre ragazze sognano il principe che viene con il cavallo alato da un altro posto a salvarle a redimerle dalla fame; non solo fame di cibo ma anche fame di autostima, fame di riconoscimento… Per questa ragione abbiamo capito che per combattere il turismo sessuale dobbiamo lavorare con queste ragazze offrendo un’altra visione di loro stesse, dandogli degli altri punti di vista, offrendogli delle opportunità per riacquistare l’autostima che hanno perso, mutando così la visione di sé stesse, degli altri e del loro spazio. Le bambine abusate vengono spesso dalla periferia e molte volte non sono consapevoli dei loro diritti come membri della società civile.
UNA VISIONE MAGICA DEL FUTURO
Potrebbe descrivere le caratteristiche dei minori vittime di turismo sessuale?
Innanzitutto c’è da dire che non tutte le ragazze vittime di turismo sessuale provengono da famiglie povere, alcune hanno una provenienza diciamo così “normale” oppure da famiglie con parecchi figli che possono provvedere alla crescita e all’educazione dei figli, ma senza eccessi. Ecco che magari si trova la ragazzina insoddisfatta che vede una vicina di casa con abiti costosi o che si può permettere i cosmetici, visto che appunto ha un “fidanzato italiano o spagnolo o tedesco”… In queste ragazze vi è una visione del futuro dalla forma magica, come se per incantesimo la loro situazione potesse mutare drasticamente.
I LUOGHI DELL’ABUSO
Con quali modalità è costruita la rete locale attraverso cui viene favorito il fenomeno del turismo sessuale.
Da una nostra recente indagine abbiamo localizzato una quindicina di luoghi dove vengono perpetrati gli abusi sessuali, in ognuno di questi vi è una sorta di “sottorete” o varie sottoreti. Pertanto si può dire che a Fortaleza il turismo sessuale è perlopiù invisibile perché si è amalgamato al tessuto sociale, e fa praticamente parte del quotidiano di questa città. Molti confondono queste ragazze con i travestiti o le prostitute che adescano i clienti, ma loro non si definirebbero mai in questi termini, anzi i rapporti con i turisti li spiegano come delle storie sentimentali: “siamo usciti, abbiamo bevuto, siamo andati a mangiare, a ballare, poi mi ha portato in un bel hotel e dopo mi ha fatto un regalo”. Dunque il tutto viene visto così, senza una classificazione netta; le ragazze non ammetteranno mai di essere vittime di abusi o di fare parte di una rete organizzata. Ma questa è solo una delle facce della medaglia, perché esiste una rete informale non burocratizzata, per questo è difficile da combattere. Se per esempio un turista maschio prende un taxi è molto facile che il tassista stesso si informi se ha già trovato una compagnia per la sera, e così il proprietaria del chiosco sulla spiaggia…
VITTIME DELLE STESSE FAMIGLIE
Può descrivere le dinamiche familiari che queste ragazze vivono nella loro quotidianità.
La famiglia non è un luogo di unificazione ma di disgregazione. Le ragazze il più delle volte sono prima vittime delle loro stesse famiglie. Mi è rimasto impresso il caso di una ragazzina che aveva la madre sieropositiva e il padre in galera; il nuovo compagno della madre usava violentarla regolarmente. Una volta passò tre giorni interi subendo le violenze di quest’uomo, convinta che sarebbe stata uccisa. E’ chiaro che il turismo sessuale diventa la punta dell’iceberg, ma la base è altrove…
LE RETI CRIMINALI ITALIANE
Sappiamo di organizzazioni criminali italiane che si insediano in Brasile investendo su alberghi o infrastrutture turistiche, per costruire reti di sfruttamento della prostituzione. Esiste a Fortaleza questa realtà magari collegata al fenomeno del turismo sessuale?
Sin dall’inizio del suo mandato il Sindaco Lins ha fatto della lotta al turismo sessuale il suo marchio di fabbrica. Quello che posso dire è che i suoi sforzi si sono dovuti scontrare spesso con vari tentativi di insabbiamento da parte di poteri forti. Ci siamo accorti che è molto difficile andare contro gli interessi economici di chi investe forti somme di denaro dall’Europa nel settore turistico, perché gode di protezioni. In tal senso la tendenza è quella di minimizzare le problematiche di questo genere. Comunque non parliamo soltanto di italiani ma di europei, negli ultimi tempi, per esempio, si è vista una vera colonizzazione dei portoghesi. Molti alberghi o resorts sono di proprietà di singoli o società portoghesi. Gli italiani non hanno la stessa prospettiva dei portoghesi ma bensì tendono ad agire più nell’ombra. Un po’ come si vede nei film di mafia, tendono a fare è le cose senza voler apparire, senza mostrarsi. E’ chiara la percezione che esistono due città parallele, quella formale e l’altra costruita da reti sommerse che costituiscono una vera e propria mappa segreta, con i punti d’incontro dedicati agli abusi sessuali. Una città questa invisibile ai più ma è ben nota ai frequentatori di queste pratiche. Come ad esempio certi ristoranti dove i gestori compiacenti lasciano che le ragazze utilizzino i locali come punto di incontro, per un ritorno economico e di clientela. Esiste dunque tutta una fascia sociale collusa con questo fenomeno. Se le autorità competenti facessero dei controlli sui proprietari degli appartamenti ne uscirebbero delle belle…
L’ORGANIZZAZIONE TURISTICA DEL SESSO
Com’è possibile che gli europei senza residenza, senza alcun permesso possono essere proprietari di appartamenti?
Molte volte usano prestanomi. C’è da spiegare però le modalità attraverso cui vengono utilizzate queste case. Alcune ragazze vivono in questi appartamenti, occupandosi delle faccende domestiche, oltre ad offrire ai turisti, che poi occupano gli appartamenti in affitto, le prestazioni sessuali, e tutto questo a prezzi modici rispetto a quanto costerebbero in Europa. Il proprietario tiene praticamente la ragazza come parte del mobilio, collegandosi magari al chiosco sulla spiaggia o allo specifico ristorante, e nessuno fa domande se la ragazza è minorenne.
Abbiamo letto di agenzie turistiche italiane che organizzano voli charter finalizzati al turismo sessuale. Addirittura in un reportage si sottolineava che il sindaco di Fortaleza ha bloccato un volo di soli uomini italiani organizzato con queste modalità.
In verità non fu il nostro sindaco a fare ciò bensì furono le autorità del governo federale. C’è comunque da dire che oggi con il governo federale siamo impegnati insieme a combattere questo fenomeno, infatti abbiamo creato all’unisono un piano operativo di azione locale.
LE AZIONI DI PREVENZIONE
Quali sono le azioni di prevenzione che state mettendo in atto per combattere gli abusi sui minori?
In questi anni abbiamo lavorato per migliorare le strutture formative in modo tale da offrire una alternativa realistica ai minori abusati. Nel passato non c’era nè una cultura pedagogica appropriata né mezzi per poter sostenere il presente e il futuro dei minori, non c’erano strumenti per stimolarli a non sentirsi degli “outsiders”. Questo ha significato la sfiducia nella formazione e nell’apprendimento, ecco perché l’abbandono scolastico era altissimo. A Fortaleza ad esempio abbiamo creato una scuola professionale per stilisti di moda e per chef basata su reti di solidarietà imprenditoriale. Questo perché è necessario canalizzare le forze per offrire delle prospettive di lavoro serie, invogliando al tempo stesso le ragazze verso una crescita professionale che è anche crescita umana.
Credits Marco Marano
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VIENNA CITTA’ DEL MONDO
30 marzo 2013
Nella città più imperiale d’Europa, attraverso le strade di Naschmarkt, rintracciamo la cronaca dei nostri tempi
Tra storia e contemporaneità
In una giornata uggiosa di fine marzo, intrisa di malinconia, Vienna ci accoglie come solo lei può fare, avvolgendoci dentro quel museo a cielo aperto qual è la città, permettendoci di respirare la storia dell’Europa, di cui per secoli ne è stata una delle capitali più eccelse, ma al tempo stesso presentandoci quella contemporaneità che fa da sintesi al nostro tempo. Si perché la dimensione multietnica, anzi dovremmo dire multi-nazionale, è tratteggiata col pennello di un artista nella semplicità delle grammatiche e delle semantiche, per cui, ad esempio, quella strana e curiosa miscela gastronomica che in alcune insegne si scorge, può diventare una non convenzionale chiave di lettura: “pizza & kebap”…
Tra Europa e Asia
Se dalle tradizioni culinarie della capitale austriaca, che riuniscono varie nazionalità europee, come quella boema, ungherese, italiana ed ebraica, sievince, in ragione delle secolari dimensioni di quell’impero di cui fu capitale, la vocazione ad incorporare caratteri culturali diversi dai propri, i processi migratori degli ultimi due decenni spiegano come le tradizioni europee sono andate a fondersi con quelle asiatiche, attraverso un processo abbastanza armonico.
Un luogo d’incontro universale
C’è un luogo che, attraversandolo, ci racconta in qualche modo le storie di migrazioni che si sono avvicendate negli anni, dove le grammatiche e le semantiche si sono fuse alla lingua tedesca e all’inglese: Naschmarkt, il mercato all’aperto di Vienna, situato tra Karlsplatz e Kettenbrückengass. In effetti, come molti mercati europei, è un microcosmo che sintetizza la dimensione mondialista della città, perché oltre alle centinaia di bancarelle di frutta, verdura, alimentari, spezie, provenienti da tutto il mondo, ci sono una miriade di ristorantini e bistrò legati alle varie nazionalità che si sono insediate in città. E’ un vero e proprio luogo d’incontro universale, dove giovani e anziani si ritrovano. E nel fine settimana il vicino mercato delle pulci diventa luogo di svago colorato, mentre i giovani fino a sera possono divertirsi grazie ai Dj che in alcuni locali di Nashmarkt mettono la loro musica.
Dalla Turchia e dal sud est asiatico i maggiori insediamenti
Secondo i dati del 2012 a Vienna sono presenti 590.845 persone con background migratorio, cioè il 34 per cento della popolazione metropolitana. Se consideriamo che nell’intera Austria le statistiche dello stesso anno parlano di 970.000 cittadini stranieri, il dato più interessante riguarda il fatto che nella capitale sono concentrati più della metà dei cittadini immigrati rispetto all’intera Austria. Il 34 per cento proviene dai paesi UE: Turchia, paesi dell’ex Jugoslavia e paesi dell’est compongono la maggioranza degli insediamenti. Per ciò che concerne le altre aree del mondo il “contingente” maggiore proviene dai paesi del sud est asiatico, circa l’11 per cento, mentre il 6 per cento circa proviene da Africa e Americhe.
Lo sviluppo può passare dalle imprese straniere
La visione di una città integrata europea del ventunesimo secolo non può che partire da una idea di partecipazione collettiva alle dinamiche di crescita del tessuto urbano, proprio perché il senso delle differenze, se azionato con i giusti meccanismi, può produrre quel valore aggiunto attraverso cui la crescita di una città può distinguersi in termini di ricchezza, sia economica che sociale, per l’intera città. E’ così che la municipalità di Vienna ha elaborato un progetto che sicuramente rappresenta una best pratics nell’ambito delle politiche di inclusione sociale a livello europeo. Si chiama “Thara Biznis” ed è una sorta di “Job Office” virtuale, attivato da un sito web e dedicato a tutti quei cittadini rom e sinti provenienti dall’ex Jugoslavia, per fare da matching tra domanda e offerta di lavoro. Ma non solo, perché attraverso questo progetto si costruiscono percorsi laboratoriali per giovani, donne e adulti, ma anche laboratori per i cosiddetti “moltiplicatori”, cioè cittadini rom che si propongono come dei “mediatori territoriali”, per fare da sintesi tra il mercato del lavoro e la dimensione culturale della loro specifica comunità. Per lanciare questa iniziativa è stato indetto un vero e proprio concorso, finalizzato a premiare progetti d’impresa in due categorie: “diversità “ e “Giovani Imprenditori”.
Oriente e occidente insieme
Percorrendo il Naschmarkt si ha davvero l’impressione di essere in mezzo al mondo. Sapori, colori, odori, somi parlano variegate lingue. C’è il medioriente con le specialità israeliane e libanesi: Tabulè si chiama l’insalata tipica “from Beirut”. Mentre in un particolare ristorantino a due spazi troviamo la sintesi di tutto. Si chiama “Orient & Occident”, e lì, non si capisce bene se tra commistioni o contaminazioni, ci addentriamo nei sapori della cucina turca. Oriente e occidente insieme sembrano la vera chiave di lettura di Naschmarkt e quindi di Vienna, che dal suo distaccato splendore imperiale sembra adattarsi perfettamente alle dinamiche del nuovo millennio.
Il “Refugee Protest Camp”
Ma c’è una storia da raccontare che sottolinea la peculiarità di questa città, la quale offre, a chi non la conosce, un fortissimo senso del passato, per le sue caratteristiche architettoniche. Quando però si tratta di scontrarsi con le contraddizioni del nostro tempo, Vienna certo non si tira indietro. Tutto ebbe inizio nel novembre del 2012 quando nell’ambito delle proteste di molti richiedenti asilo e rifugiati in Europa, un gruppo cospicuo di questi allestirono un campo spontaneo in Sigmund Freud Park. Le proteste erano state generate dall’opposizione alla regola di Dublino che obbliga i richiedenti asilo a restare nel primo paese dove gli sono state prese le impronte digitali. L’esperienza del Refugee Protest Camp diventa atipica poiché sostenuta dall’autofinanziamento e dal mutuo aiuto dei richiedenti, ma non dura molto poiché nel periodo natalizio viene smantellato dall’autorità costituita. Attorno ad esso però monta una solidarietà da tutta Europa, mentre in città, operatori sociali, ong, e la chiesa cattolica si mobilitano. Così l’Arcidiocesi e la Caritas insieme al privato sociale individuano un monastero come sede e luogo per la rinascita sociale di chi nel proprio paese non può più tornare…
Credits Marco Marano
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BURGAS, AVAMPOSTO DELLE CONTRADDIZIONI EUROPEE
12 novembre 2013

UNO SGUARDO DAL MAR NERO
Burgas è la terza città della Bulgaria. Si affaccia sul mar Nero, ed è molto movimentata nel periodo estivo, vista la sua bella spiaggia, sovrastata da un parco che si allunga per tutta la costa. Il minuscolo aereoporto accoglie gli stanchi viaggiatori che arrivano dall’estero, poiché i collegamenti sono poco dinamici: dall’Italia occorre fare due o tre scali a seconda della compagnia. Entrare nella realtà di questa città, porta in qualche modo ad immergersi dentro le contraddizioni di un paese che dal 2007 è entrato nell’UE, con un’organizzazione sociale scarsamente attrezzata ad affrontare le sfide del nuovo millennio, nel contesto di un’Europa che non riesce a far quadrare i costi sociali della crisi economica internazionale.
L’ITALIA E’ MOLTO VICINA
Hristo ha ventisei anni, ha studiato in Italia e lavora come insegnante in una scuola elementare. Lo incontriamo all’interno del workshop internazionale svoltosi a Burgas sullo scambio di prassi tra città europee, in relazione alle politiche di inclusione sociale, all’interno del progetto europeo Mistra: “Questa è una città dove tutto sembra fermo… Non riesco a vedere come potrebbe essere il futuro, il mio intento è quello di riuscire a tornare in Italia per lavorare… ” Hristo ha una sorella che vive a Vienna, ma l’Italia per lui rappresenta una specie di seconda casa. Le sue parole ci colpiscono, poiché fotografano i dislivelli di percezione e di realtà tra le diverse aree geografiche del continente. L’Italia, in effetti, è molto vicina ad alcuni paesi dell’ex blocco sovietico, prima che dal punto di vista geografico, da quello culturale, almeno in termini di assonanze. Però è molto lontana rispetto alle percezioni sociali, laddove viene vissuta come un eldorado dove poter ricostruire una esistenza. Del resto la generazione di Hristo, ormai da mesi, è in mobilitazione nelle piazze della capitale Sofia, come di altre città, per protestare contro un sistema di potere di tipo oligarchico, ancora più sclerotizzato di quello italiano, il che è tutto dire… Le proteste, innescate nell’estate 2013, hanno visto una grande mobilitazione, mentre i riflettori erano accesi sulle altre due grandi contestazioni popolari: Turchia e Brasile. Dopo quaranta giorni i manifestanti arrivarono a circondare il parlamento bulgaro, chiedendo le dimissioni del governo da poco rocambolescamente insediatosi. “Siete tutti corrotti! – urlava la gente – dovete dimettervi!”.
UNA GENERAZIONE ALLA RICERCA DI SE STESSA
Parlavamo di assonanze tra Italia e Bulgaria che emergono impietose se si va a guardare come nasce l’ultimo governo. Alle elezioni di maggio 2013, i due maggiori partiti, quello socialista e quello conservatore, non riescono, nessuno dei due, a raggiungere una maggioranza, visto che ambedue sono considerate dall’opinione pubblica organizzazioni oligarchiche e corrotte. Con un colpo di teatro, il presidente incaricato, il socialista Plamen Oresarski, riusciva a formare un governo con due partiti minori, tra cui quello della minoranza turca. Poi, nominava capo della sicurezza nazionale un magnate accusato di corruzione. Tutto questo nel contesto di un paese a cui non restano più neanche gli occhi per piangere. Una volta finite le ondate di protesta, sono cominciate le occupazioni nelle università, i cui artefici sono costretti a difendersi dai tentativi di screditamento da parte dei mezzi di informazione vicini al partito socialista, ma anche dai tentativi della destra di cavalcare la contestazione. La principale richiesta degli studenti è una sola: le dimissioni del governo! Il punto è che non si tratta di uno scontro politico, ma di una richiesta di cambiamento del modello di organizzazione sociale, ormai in stato comatoso. “Come si fa a vivere in questo modo? – s’interroga Hristo – Qui non ci sono speranze, non c’è lavoro, non c’è niente che si possa fare per migliorare la nostra condizione…” Ma queste parole quante volte le abbiamo sentite dai giovani italiani che scelgono di andare via dall’Italia…?
LA DIFICILE GESTIONE DEL TERRITORIO
L’ambito del welfare è forse quello dove maggiormente può cogliersi l’inadeguatezza dell’organizzazione sociale bulgara, soprattutto quando è accompagnata da vuoti legislativi che diventa difficile colmare, con la sola buona volontà delle istituzioni territoriali. Sono due i casi tipo più interessanti, per ciò che concerne il tema dell’inclusione sociale. Il primo è di recentissima nascita, poiché risale a pochi mesi fa, e riguarda l’arrivo dei profughi siriani, prevalentemente donne e bambini. Non esistendo nessun tipo di legge e nessun tipo di azione governativa, come potrebbe essere lo “Sprar” in Italia, cioè il sistema di accoglienza dei rifugiati, promosso dal ministero dell’Interno, la gestione di una vera emergenza come questa diventa difficile, poiché oltre al concentramento di questa gente in luoghi, più simili ai nostri CIE che ai campi profughi classici, è impensabile pensare ad interventi di inclusione sociale. Ed è proprio questo il bisogno espresso dagli operatori di Burgas, cioè quello relativo all’assenza di iniziative ministeriali tese a facilitare l’intervento sul territorio. C’è da dire che nel caso specifico ritorna, forse in termini ancora più tragici che in Italia, l’assurdità della regola europea di Dublino, che impedisce ai richiedenti asilo di spostarsi in qualsivoglia paese, poiché costretti a rimanere nel primo stato europeo dove si arriva, e quindi dove vengono prese le impronte digitali.
IL TEMA ACCESO DELLE MINORANZE
Il secondo caso è un fenomeno antico, anzi è il tema forte di molti paesi dell’est: l’inclusione dei rom. Ora, se nel resto d’Europa molti paesi, soprattutto quelli nel bacino del mediterraneo, devono approcciarsi al fenomeno rom, le cui caratteristiche sono legate alle dinamiche del nomadismo, in Bulgaria essi sono prevalentemente stanziali. Ma la stanzialità non è certo garanzia di integrazione, anzi al contrario… Infatti, quasi metà della popolazione di Burgas è rom, ma questi sembrano cittadini fantasma, che vivono ai margini, ed è difficile comprendere per chi osserva un tal fenomeno dall’esterno, se la marginalità è cercata o prodotta da forme di discriminazione. A quello che dicono gli operatori sembra che ambedue siano le cause, ma è chiaro che a prescindere dalle percezioni dei cittadini di Burgas, il tipo di organizzazione sociale non facilita affatto l’inclusione sul territorio.La dimostrazione della situazione magmatica sta tutta in una delle problematiche che le istituzioni territoriali della città stanno cercando di approcciare, cioè quella relativo al numero identificativo dei minori. E’ una sorta di codice fiscale, che si da insieme all’atto di nascita. Il problema nasce dal fatto che i genitori rom non denunciano le nascite, quindi i bambini non possono accedere, senza numero identificativo, ai servizi scolastici. “I bambini non vengono denunciati alla nascita – osserva un’insegnante – perché nel migliore dei casi devono andare in strada a racimolare un po’ di soldi per la famiglia, mentre nel peggiore vengono venduti a famiglie più agiate. E’ un vero e proprio business!”
LE ISTITUZIONI CHE NON SI PARLANO
Se questa è la criticità sociale più caratterizzante del territorio di Burgas, c’è da dire che diventa difficilissimo intervenire soprattutto perché esiste tradizionalmente un grandissimo scollamento tra le istituzioni pubbliche, le scuole e quelle organizzazioni che in Italia connotiamo nei termini di privato sociale. Non solo queste tre dimensioni non riescono a dialogare tra di loro, ma, spesso, le organizzazioni di privato sociale, non vengono riconosciute come interlocutrici. Esiste poi un’altra frattura tra le diverse istituzioni pubbliche cittadine, che oltre a non dialogare, spesso confondono il livello delle responsabilità, con un tristissimo scarica barile. Abbiamo bisogno di intervenire subito su più livelli – sottolinea una direttrice scolastica – occorrono azioni concrete per non fermarsi alle discussioni teoriche… E comunque senza un cambio di passo delle istituzioni governative, con il loro coinvolgimento diretto su queste problematiche, il pericolo è che da soli, a livello cittadino, tutto sarà difficile, molto difficile…”
Credits Marco Marano
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PER LE STRADE DI ISTANBUL
7 NOVEMBRE 2013


Il risveglio dell’Imam, dagli altoparlanti che rimbombano in tutta la città, è alle sei del mattino, ma il venerdì, giorno di preghiera ufficiale, per tutti i paesi islamici, dura un po’ di più. Nelle moschee è il giorno in cui i turisti difficilmente possono entrare, data la sacralità della giornata, ma in quella principale di Sultanahmet, i credenti e i turisti si mischiano. In molti dicono che quella sia la più grande, ancor di più della celeberrima moschea blu. Sultanahmet è il quartiere che rappresenta il cuore di Istanbul, il cui punto nevralgico è la piazza che ospita l’imbarcadero, da cui si può prendere il battello per fare il tour sul mar di Marmara, tra la costa asiatica e quella europea. Come è noto, prima di entrare nella moschea occorre togliersi le scarpe e le donne devono indossare un copricapo. Senih, la nostra guida, si arrabbia con un paio di turiste entrate senza questo accorgimento: “Io non sono musulmano, ma è una questione di rispetto nei confronti di ciò che rappresenta questo tempio per la gente che viene a pregare…” In effetti, la parole di Senih sono una precisa chiave di lettura di questo paese, nato dalle rovine dell’Impero ottomano nel 1923, per opera del padre della patria Mustafa Kemal Ataturk. E’ lì che la Turchia iniziò a contraddistinguersi come repubblica costruita sui valori del laicismo.
TRA ISLAMISMO E LAICISMO
Se da un lato circa metà della popolazione è musulmana, dall’altro esiste un rispetto profondo per le ritualità religiose da parte di chi non è credente. Sembra una dimensione di grande solidarietà comunitaria, forse anche legata alla fortissima identità di popolo, che è possibile notare appena si mette piede a Istanbul, grazie alle miriadi di bandiere nazionali appese ai balconi o nelle strade, roba che in Italia appare solo durante i mondiali di calcio. Ma il rapporto tra islamismo e laicismo, forse è anche connotato dal fatto che non ci sono due credi religiosi esplicitamente contrapposti, cosa che in tutti i paesi musulmani, genera un conflitto. A Istanbul sembra semplicemente una forma di rispetto tra chi è credente e chi non lo è. Ed è proprio questo elemento che potrebbe rappresentare la grande speranza del nostro tempo, cioè quella di un paese islamico su cui si innestino i criteri di uno stato democratico di tipo occidentale, laddove si possa fondare una prassi istituzionale da promuovere in medioriente. In questa ottica la Turchia è forse l’unico paese potenzialmente in condizione di innescare questa sintesi.
CAMMINANDO PER LE STRADE DI ISTANBUL
Camminando per le strade di Istanbul è proprio questa l’aria che si respira. Alla fermata del tram ti può capitare d’incontrare la ragazza truccatissima, col tacco quindici, insieme alla donna che indossa il burka, per non parlare del “turban”, il velo islamico utilizzato da tantissime donne, anche in modo diverso, come ad esempio quelle ragazze che lo abbinano, con raffinatezza, al taglio e al colore degli abiti.
LE LEGGI DEL DEMIURGO
C’è da dire che il dibattito sul turban in Turchia si è riacceso con le controverse leggi sulla democratizzazione promosse dal primo ministro. Il demiurgo sunnita Erdogan, fido alleato dei Fratelli musulmani, da un lato cerca di accreditarsi presso l’Unione Europea, con cui è stato aperto un nuovo capitolo negoziale, dopo tre anni di stasi, dall’altro si erge a baluardo dell’islamismo più o meno moderato, in antitesi agli estremismi sciiti di Iran e Siria, con in mezzo Al-Qaeda, da cui riceve continue minacce di attacchi su Ankara e Istanbul. Il punto è che qualsiasi processo di democratizzazione non può che essere attraversato dalla libertà di espressione, intesa nel senso ampio del termine, invece sembra che il governo Erdogan voglia imporre esclusivamente le regole della sharia o giù di lì. Ha giustamente revocato il divieto dell’uso del sultan per le donne che lavorano negli uffici pubblici, ma al tempo stesso, attraverso le critiche aspre del suo portavoce, ha fatto si che una presentatrice televisiva venisse licenziata per i vestiti scollati. In una democrazia una donna dovrebbe avere la libertà di coprirsi e allo stesso modo potere usare la medesima libertà per scoprirsi.
IN UNA ZONA DI SULTANAHMET
Come in ogni città del mondo, anche a Istanbul esistono i luoghi tipici per i turisti e quelli per gli indigeni. In una zona di Sultanahmet, scopriamo un’interessante ritualità commerciale, molto atipica. Ci inoltriamo in un dedalo di caratteristici ristorantini a basso costo, più simili a piccole locande, dove i turisti solitamente non entrano. Sull’uscio di ognuno di questi un “butta dentro” insegue le persone per farle entrare. Senih, ci dice una cosa che all’inizio non riusciamo a comprendere pienamente, e cioè che possiamo ordinare qualsiasi piatto in uno di questi locali, sedendoci però nel locale accanto, dove poter ordinare altri piatti, per pagare il conto in quest’ultimo: “Questa è Istanbul!” Esclama Senih, sorridendo…

Le lingue più usate che sentiamo in queste strade strette e caratteristiche sono l’inglese, l’italiano e lo spagnolo. E’ il prodotto dell’emigrazione di ritorno. Se durante gli anni sessanta e settanta l’emigrazione turca si era prevalentemente rivolta verso la Germania, dove ormai si parla di insediamenti di terza generazione, negli anni a venire l’Italia e la Spagna sono state spesso mete temporanee. Perché i processi migratori, sia in entrata che in uscita, coinvolgono delle fattispecie legate al contesto socioeconomico e giuridico dell’intero territorio nazionale. Due fenomeni in particolare sono interessanti da annotare. Il primo riguarda sempre una emigrazione di ritorno, che coinvolge però i figli degli emigranti dei decenni passati, diventati adulti, che scelgono di vivere ad Istanbul, luogo sognato per tutta la vita. Germania, Austria, Belgio, Francia sono i paesi di provenienza, le cui lingue madri tedesco e francese restano tali pur vivendo a Istanbul. Sono laureati, parlano più lingue e hanno riconquistato quella identità da sempre agognata: nel loro passato non erano né turchi né francesi, né turchi né tedeschi, e così via. Adesso sanno chi sono… L’altro fenomeno è relativo ai profughi che arrivano da varie rotte, sia dai confini frontalieri che dal mare. Su tutto il tema relativo all’asilo politico la Turchia si sta lentamente adeguando alle dinamiche europee, vista la candidatura per diventarne membro, poiché tradizionalmente la Turchia non concede la protezione internazionale ai cittadini non europei… Ma c’è anche un’emigrazione molto particolare di tipo economico, di persone provenienti da paesi prevalentemente limitrofi, che non sono stanziali, poiché una volta finita l’attività lavorativa o commerciale se ne tornano a casa. Sul territorio sono presenti una ventina di nazionalità diverse, se si raffronta questo dato ad una città italiana di media grandezza come Bologna, dove di nazionalità ce ne sono centosessanta, si possono comprendere le profonde differenze.
DIRITTI E LIBERTA’
La libertà di espressione, è questo, dunque, il banco di prova per ogni democrazia. Il caso della leader delle Pussy Riot è abbastanza emblematico: mentre scontava due anni di campo di lavoro, per una performance anti Putin, veniva prelevata e spostata in una colonia penale in Siberia, a causa della lettera nella quale denunciava le condizioni carcerarie russe. Certo, i fatti di piazza Taksim a Istanbul un segno l’hanno lasciato in tutta Europa. Far passare l’idea che chi protesta sia un terrorista, da reprimere con la forza, non è certo un segnale rassicurante, nell’ipotesi che la Turchia diventi membro dell’Unione Europea, la quale ha già il suo bel da fare a tenere a bada Victor Orban, il primo ministro nazionalista ungherese.
TRA EUROPA E MEDIO ORIENTE
Ma c’è un altro fatto, questa volta che riguarda una cattedrale: Santa Sofia. E’ uno dei luoghi più intrisi di storia e di magia al tempo stesso, visto che da cattedrale cristiana venne trasformata in moschea, dopo la caduta di Costantinopoli, per diventare un sito museale con la nascita della repubblica di Attaturk, proprio per dargli un valore universale, nel rispetto della storia. Visitare Santa Sofia è davvero una esperienza emozionante, poiché si entra in uno spazio senza tempo, assolutamente remoto, dove immergersi, anche per chi non è credente, in una dimensione spirituale assoluta. Ecco, il punto è che il primo ministro vuole, dopo la fase di ristrutturazione, riattivarla come moschea, per riprendere in mano il mito dell’impero ottomano e islamizzare anche ciò che di universale c’è in una città culla della storia. Questa sembra essere la realtà… Ma la speranza o l’auspicio che ci possa essere un’altra realtà non la vogliamo perdere. Una realtà dove riuscire a garantire il giusto equilibrio tra l’islamismo e il laicismo, così com’è nelle strade, senza cioè allontanarsi dal paese reale, facendo leva sul senso di comunità del popolo turco e rispettando la libertà di espressione. Se così fosse questo paese, anello tra Europa ed Medio Oriente, dalla storia passata potrebbe tornare ad essere centrale nella storia futura.
Credits Marco Marano
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ISTANBUL CITTA’ GLOBALE
3 maggio 2014
Da Sultanamhet a piazza Taksim, attraverso i movimenti della dimensione metropolitana
I temi del nostro oggi
Attraversiamo la città di Istanbul da Sultanamhet a piazza Taksim, scorgendo i movimenti della dimensione metropolitana… Dopo tutto è una delle culle della storia umana, e le sue vicende millenarie sembrano essere la chiave di lettura dei temi del nostro oggi: Islam/occidente, democrazie/autocrazie religiose, Europa dei popoli/economie europee, considerata anche la perfetta armonia tra la metà della popolazione di religione islamica, con l’altra metà laica, la fotografia del nostro tempo è completa. Un‘armonia che potrebbe essere messa in crisi dalla tendenza alla riscoperta dell’impero ottomano da parte del governo Erdogan, visti i segnali provenienti dalle proteste di piazza Taksim.
Un Potere d’ispirazione religiosa
Perché quella turca, come tutti sanno, è una società governata da un potere d’ispirazione religioso, liberamente votato dalla maggioranza del paese (poco più che la metà), l’autorità costituita indossa l’abito sunnita, ma espleta prassi di corruzione sistemica di cui il paese stesso si nutre endemicamente. In una economia in crescita ma appesa sulle ombre del sommerso, tanto che alcuni analisti parlano di “crescita gonfiata”, la problematicità della macchina istituzionale non può non apparire evidente. C’è da dire che un segnale positivo proviene dalla marcata separazione dei poteri, laddove la magistratura è riuscita a correggere alcune delle distorsioni governative eclatanti, come appunto le sorti del Gezy Park a Istanbul.
Quello strano caso di liberismo islamico
Certo è che la visione per l’intero Medioriente, di un modello turco di “democrazia islamica” è un passaggio della storia semplicemente utopico, anche perché qui si tratta di uno strano caso di “liberismo islamico”, dove attraverso la nuova frontiera delle opere pubbliche, che siano moschee da costruire o ristrutturare o centri commerciali o grattacieli, l’impetuosa circolazione di denaro viene gestita arricchendo le consorterie familistiche, attraverso le speculazioni edilizie. Che sia islamico o occidentale, il punto è che il liberismo per definizione produce fisiologicamente espulsione dai meccanismi economici della società, con le conseguenti patologie sociali che tutti conosciamo… Se l’economia è poi drogata da corruzione e sommerso, non può che venire in mente la sindrome greca…
La disomogeneità urbana
Non è semplicemente una nota di colore interrogarsi sul disegno architettonico del sistema urbano di Istanbul, vista la tendenza degli ultimi dieci anni a ridisegnare la città, nel contesto delle influenze storiche di origine bizantina. Ma naturalmente a prevalere è la tradizione ottomana, che raggiunge una perfetta armonia tra spazi interni ed esterni e fra luci e ombre. Tutta l’architettura ottomana è definita dagli studiosi una sintesi tra Medioriente e Mediterraneo. Ma perché dovrebbe esserci una impronta mediterranea nell’architettura ottomana? Semplicemente perché fu preso come modello architettonico da replicare la chiesa cristiana di Santa Sofia, costruita in età bizantina… Il punto è che dalla sua nascita, dovendo rappresentare la “Nuova Roma”, tutti gli edifici erano il prodotto di accurati piani urbanistici, a differenza di oggi laddove la disomogeneità urbana caotica e anomica, ci porta dentro una città assente di regolazione. L’assenza di regole sembra un fatto sociale conclamato a cominciare dalle regole stradali che non esistono…
Le atmosfere mediorientali
Sultanahmet è il quartiere che rappresenta il cuore di Istanbul, poiché lì vi sono concentrate le principali moschee, comprese le due celeberrime Moschea Blu e Santa Sofia appunto. E’ la parte più antica della città, dove dedali di strade s’intersecano creando tante casbe senza soluzione di continuità. Fino agli inizi degli anni ottanta, il quartiere storico della città era degradato e considerato off limits per i turisti, poi, in seguito ad un piano di sviluppo urbano, il quartiere ha ripreso a rivivere. La sua morfologia urbana si sposa perfettamente con le atmosfere mediorientali che si respirano in queste stradine. Anche nei mercati all’aperto che spuntano improvvisamente c’è tutto il senso di quel pezzo di cittadinanza che di commerci, anche piccoli, vive, in linea con la storia levantina di quel porto che oggi ospita l’imbarcadero, per il tour tra la costa asiatica e quella europea.
Il boom economico
Ma quado si cammina per quei dedali di strade, tra bancarelle e personaggi che sbarcano il lunario come possono, diventa difficile non pensare che questa semplicissima realtà quotidiana, fa da contraltare al boom economico che la Turchia sembra aver avuto negli ultimi anni, semplicemente perché il livello di economia sommersa è così diffuso sul territorio che sembra avere più peso di quello reale…
Un luogo d’incontro
Piazza Taksim invece rappresenta in qualche modo la modernità e non solo per essere ormai passata alla storia per le proteste di massa dei giovani di Istanbul, finalizzate ad impedire la costruzione di un centro commerciale e di una moschea al posto del Gezy park, luogo d’incontro di tutte le categorie sociali, sia laiche che musulmane, soprattutto il venerdì, giorno di preghiera e di festa per tutti i popoli di religione islamica. Stigmatizzati come terroristi dall’autorità costituita, le proteste erano in realtà un grido di all’allarme, contro un governo che ha alimentato la corruzione sistemica nel paese, aumentando le sacche di povertà, devianza e ingiustizie. Ma anche un governo che lentamente tenta di islamizzare anche le isole tradizionalmente laiche del paese. In piazza Taksim la forbice tra abbienti e meno abbienti la si può guardare direttamente: lo shopping delle grandi arterie adiacenti stridono con i “bambini da strada” ed una quantità incredibile di persone praticamente “svenute” nei prati del parco.
La pianificazione urbana
Intanto, negli ultimi dieci anni, la città è stata un cantiere e continua ad esserlo oggi, nella logica del “ridisegno urbano”, sia dal punto di vista edilizio che nei trasporti pubblici. Se uno degli elementi che contraddistingue oggi il concetto di “Città Globale” è la scelta del modello sui cui costruire il sistema di collegamento territoriale, Istanbul sembra essersi direzionata verso il cosiddetto “trasporto dolce”. Infatti il viale che attraversa il quartiere di Beyoglu,anche questo lasciato per anni in condizioni fatiscenti, è stato reso pedonabile, in una complessiva opera di riqualificazione, dove i due nodi di interscambio viario Taksim (dotato di metropolitana e funicolare) e Tünel (dotato di tram veloce e trasporto su gomma), sono stati collegati dall’antico tram che percorre tutto l’asse, rendendo sostenibile la dimensione pedonale.
La deriva autoritaria
I quartieri isolati fin dalle prime luci dell’alba non promettevano niente di buono. C’erano quarantamila poliziotti in tenuta anti sommossa che controllavano i punti sensibili della città. Quando i manifestanti hanno cominciato ad affluire in piazza Taksim è scoppiato l’inferno. Lacrimogeni, getti di idrante, sembra con sostanze orticanti, hanno coperto non solo la piazza ma anche i quartieri adiacenti, tanto che alcuni residenti per proteggersi da quel finimondo hanno dovuto rifugiarsi in altri quartieri. Le cronache parlano di marciapiedi divelti, vetrine e auto spaccate. 138 persone arrestate e 51 ferite, è questo il bilancio della manifestazione tenuta in piazza Taksim per il primo maggio, dopo che il governo aveva messo il divieto di raduno per la festa del lavoro nella piazza simbolo del dissenso. La giornata di guerriglia urbana è stata la dimostrazione del modo in cui la continua entrata in vigore di divieti, come l’ultimissima legata all’oscuramento di internet di Erdogan in un governo autoritario. In agosto ci saranno le elezioni presidenziali, che potrebbero segnare un momento di particolare tensione, poiché il Primo Ministro si scontrerà per la carica con l’attuale Presidente Abdullah Gul, suo oppositore attuale.
Credits Marco Marano
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BASILEA PORTA D’EUROPA
3 novembre 2014
Tra le strade della città frontaliera per eccellenza, alla scoperta di un particolare modello di vita mondialista

LA CITTA’ COSMOPOLITA
In una domenica pomeriggio di metà ottobre, dopo tre intensi giorni di pioggia, sulle rive del Reno la città rinasce. In effetti sembra un giorno estivo che invita la gente a godere di un sole inusuale in questa stagione. Gli stretti boulevard si riempiono di famiglie, anziani e giovani, accovacciati sui bordi del fiume come fosse una spiaggia. Personaggi variopinti e genti di tutte le razze si ritrovano a chiacchierare, mangiare, passeggiare componendo una interessante armonia sociale. “Quando ci si incontra con gli amici è normale che per comunicare utilizzi tre o quattro lingue, oltre al tedesco, lingue che impari o rafforzi dagli studi scolastici nella quotidianità…” Claudio è un italiano di cinquant’anni e vive a Basilea da più di venti, operaio specializzato durante il giorno e chitarrista la sera, prevalentemente al “Musikpalast” (Palazzo della musica), una sorta di Centro sociale, gestito da un gruppo non formalizzato, che paga un affitto alla banca proprietaria. Mentre parliamo, in una panchina lungo il Reno, arrivano alla spicciolata gli altri del Musikpalast. C’è Ursus, allegro sessantenne un pò post hippy, che vive con il sussidio sociale da sempre, e abita poco distante dal fiume, in una accogliente casa con parquet in legno, sempre pagata dai servizi sociali. Karl è un batterista di trentotto anni, lo vediamo con uno zaino stracolmo, lo poggia per terra e da lì inizia ad uscire lattine di birra che tracannerà per tutto il pomeriggio. Tecla è una traduttrice di testi in lingua inglese, francese e italiano, per il suo lavoro governa quattro sistemi grammaticali diversi, e con chiunque si avvicini usa la lingua che il suo interlocutore comprende meglio. Ma il pezzo forte arriva un pò in ritardo, si chiama Gerard o Ritchie o Luca, è un cinquantenne serbo, che vende e compra di tutto per fare business, simpaticissimo personaggio che ogni anno decide di farsi chiamare con un nome diverso, tipico di nazionalità differenti.

ANAGRAFICA D’UNA METROPOLI IN MINIATURA
Nel 1833 il Cantone svizzero di Basilea venne diviso in due semicantoni: Basilea Città e Basilea campagna. La città di Basilea divenne capitale del primo semicantone, il più piccolo di tutta la Svizzera, con i suoi 37 km², ma, paradossalmente, quello con la maggiore densità di popolazione, considerando anche gli altri due comuni cantonali Riehen e Bettingen. La città di Basilea a nord confina con la Germania, circondario di Lörrach nel Baden-Württemberg e con la Francia, dipartimento dell’Alto Reno in Alsazia. Con circa 190.000 abitanti, di cui il 34 per cento stranieri, è ovviamente il centro culturale, economico e politico del Cantone. Il suo posizionamento geografico, che interessa tre stati, la caratterizzano non poco per le dinamiche mondialiste, infatti sono 160 le nazionalità presenti sul territorio urbano. Un crogiolo di culture che si fondono perfettamente nel disegno sociale della città, in nome della contemporaneità. Nonostante le piccole dimensioni Basilea sa di metropoli, poiché offre tutto quello che una grande città può dare, con un valore aggiunto però: un’alta qualità della vita. I rapporti sul sistema di vita a Basilea segnalano tre dimensioni dove la città raggiunge livelli altissimi: competitività, innovazione, apertura nei confronti degli stranieri. Nelle ultime analisi statistiche Basilea viene descritta come un “efficientissimo sistema finanziario, con un mercato dinamico e diversificato”.

FRONTIERE E MIGRAZIONI COME FORME DI SVILUPPO
“Sai trent’anni fa – osserva Claudio – come chiamavano gli italiani emigranti in Svizzera? Li chiamavano cingali, perché nelle fabbriche, durante le pause, erano quelli che giocavano a batto cinque. Gli svizzeri storpiando la parola cinque la fecero diventare cingali e da allora questo appellativo è rimasto”. In effetti, la storia dell’emigrazione italiana in Svizzera prendeva avvio all’inizio dell’ottocento proprio dalle regioni del nord Italia. Dopo la seconda guerra mondiale, specialmente durante gli anni del boom economico, il nord si arricchiva per cui ad emigrare restavano i meridionali, era il periodo, e bene ricordarlo, della grande truffa della Cassa per il mezzogiorno… Attualmente le maggiori provenienze regionali sono: Lombardia 15 per cento, Campania 13,1 per cento, Puglia 12,4 per cento, Sicilia 12,1 per cento e Veneto 8,4 per cento, concentrati prevalentemente nelle zone di Zurigo 22,7 per cento e Basilea 14,4 per cento. Oggi la comunità italiana è quella più numerosa con il 18,9 per cento, su otto milioni di residenti svizzeri, tra “autoctoni”, naturalizzati e migranti di prima generazione. In questo contesto si aggiungono i lavoratori stagionali, che sono una realtà tipica svizzera. Interessante la definizione presa da Wikipedia: “La maggior parte degli emigranti sono lavoratori stagionali, il cui permesso di soggiorno è limitato a nove mesi e può essere rinnovato all’occorrenza. Sono occupati innanzi tutto nei cantieri edili e negli esercizi alberghieri, ma anche in diversi settori non vincolati alla stagionalità. Lo “stagionale” non è autorizzato a farsi raggiungere in Svizzera dalla famiglia. Soltanto dopo anni e a determinate condizioni i lavoratori stranieri ricevono il permesso di far venire la famiglia.” Ma c’è un’altra storia assai interessante in merito alle dinamiche migratorie del passato, quella degli alsaziani. In effetti il legame tra l’Alsazia e Basilea ha radici storiche fortissime, che hanno origine tra il 1870 e la fine della prima guerra mondiale, quando l’Alsazia venne annessa al Reich tedesco. E’ in questa la fase che l’area di frontiera intorno a Basilea, Saint-Louis, iniziava a svilupparsi con l’insediamento di grandi aziende svizzere. A riprova del legame tra i due territori confinanti vi fu l’accoglienza che Basilea riservò nel 1944 ai profughi francesi, prima della fine della guerra. L’eredità che questa storia di osmosi territoriale si porta dietro è rappresentata dall’Euroaereoporto di Basilea, che si trova proprio a Saint-Louis, quindi su territorio francese e serve anche Friburgo, città tedesca a 70 chilometri. Ma queste storie antiche hanno dei risvolti sull’oggi estremamente sui generis, tanto da determinare un fenomeno oggetto di scontro politico, a livello nazionale, quello del lavoro trasfrontaliero. Nel 2002 venne stipulato, con l’Unione Europea, l’accordo sulla libera circolazione delle persone, per dare la possibilità ai lavoratori residenti nelle zone di frontiera di poter accedere liberamente in Svizzera per lavorare durante il giorno e ritornare in patria la sera. Infatti nel 2007 venne soppresso l’obbligo di residenza nel raggio di 20 chilometri della fascia di confine. In questo modo le imprese non venivano più sottoposte alle quote sui permessi di lavoro e i lavoratori potevano usufruire del permesso G che li obbligava almeno una volta alla settimana a rientrare nel proprio domicilio. Oggi i lavoratori che attraversano la frontiera giornalmente in auto sono 200.000 in tutta la Svizzera e riguardano i tre paesi confinanti Italia, Francia e Germania.

LA STRANA STORIA DI UNA LEGGE XENOFOBA
Nel febbraio di quest’anno, si è svolto il referendum lanciato dal partito della destra conservatrice Unione Democratica di Centro, contro l’immigrazione di massa, secondo cui questa mina i valori e la sicurezza sociale dei cittadini svizzeri. Al cartello xenofobo si sono aggiunti la Lega dei Ticinesi ed il Movimento dei cittadini ginevrini, contrapposti a tutti gli altri partiti del Parlamento federale. A sorpresa, una maggioranza risicata, il 50,3 per cento, ha votato si all’abolizione dell’accordo di libera circolazione con l’Ue, contro il 49,7 per cento dei no, con uno scarto di 20 mila voti. Il conteggio dei cantoni ha visto 17 si contro 9 no. Da un lato c’erano i cantoni italiani e tedeschi a favore del si, dall’altro quelli francesi per il no, ad eccezione di Basilea città, e si capisce il perché dalle storie che abbiamo raccontato, ma anche Zurigo e Zugo che hanno votato no. Adesso la Confederazione è costretta a rinegoziare l’accordo con l’Ue, poiché entro tre anni dovranno essere fissati i tetti massimi per i permessi di dimora e i contingenti annuali per tutti gli stranieri, al fine di dare la precedenza sul mercato del lavoro ai cittadini svizzeri. Anche questo paradosso, come tanti in Europa in tema di migrazioni, rappresenta in qualche modo la tendenza del nostro tempo, dove una crisi sistemica internazionale, ha prodotto su tutti i territori europei, anche quelli con una vocazione all’accoglienza, egoismi, cannibalismi, distorsioni, tutti termini che se uniti alla parola sociali, danno il senso di come la civiltà contemporanea sia caduta in una voragine oscura… “L’attuale immigrazione incontrollata rappresenta una minaccia per la nostra libertà e sicurezza, per la piena occupazione, per il nostro paesaggio e, non da ultimo, per il nostro benessere”. E’ questa l’argomentazione del comitato promotore, il punto è che è falsa, almeno a sentire gli studi di settore condotti dal 2002 al 2013. In una intervista, Peter Gasser, responsabile del dossier sulla libera circolazione, promosso dalla Segreteria di Stato dell’economia, ha detto: “Non abbiamo osservato differenze significative tra le regioni di frontiera e il resto della Svizzera, per quanto concerne l’evoluzione dei salari e il tasso di disoccupazione”. Gli fa eco l’Osservatorio Universitario dell’Impiego di Ginevra, che sfata l’idea secondo cui gli stranieri tolgono lavoro agli svizzeri, soprattutto perché i pochi disoccupati “autoctoni”, il più delle volte non corrispondono ai profili ricercati, soprattutto nell’ambito del terziario, nei settori sanitario e finanziario. E che dire della punta di diamante del sistema produttivo, cioè l’orologeria? Il 60 per cento degli impiegati in questo settore non hanno passaporto svizzero, per il motivo di cui sopra.

ACCOGLIERE VUOL DIRE INCLUDERE NEL SISTEMA ECONOMICO
Ci si accorge subito, camminando tra le strade di Basilea, come qualsivoglia idea xenofoba sia una contraddizione in termini. Anche perché il concetto stesso su cui è nata la confederazione elvetica si rifà al multiculturalismo, poiché nasce come uno Stato di minoranze, senza una maggioranza veramente autoctona, e non tra virgolette, come l’abbiamo utilizzata noi… Non c’è una lingua svizzera, non una religione svizzera e neanche una gastronomia svizzera. A Basilea ad esempio non esiste un mercato alimentare cittadino, come in tutte le più importanti città europee. La semantica scolpita sulle insegne dei luoghi di ristorazione in città ci dice che la fa da padrone la cucina italiana, asiatica e latina, a cui si aggiungono i ristoranti gestiti da turchi che mettono insieme, pizza e kebab. Ma perché, quindi, parlare di contraddizioni in termini? Proprio perché non esiste una identità diciamo antropologica dell’essere cittadino svizzero. Per tal motivo la definizione di cittadinanza, intesa appunto in termini identitari, viene costruita attraverso l’assoluta osservanza alle regole comuni e alle leggi, che ruotano intorno alla possibilità che lo Stato ti da di essere soggetto economico attivo. “Quando sono arrivato a Basilea dalla Sicilia – sottolinea Claudio – ho fatto tantissimi corsi di formazione professionale, oltre a quelli per imparare la lingua. Mi hanno spiegato da subito che gli uffici del lavoro qui non sono come in Italia, ma funzionano perfettamente. Devi far vedere la buona volontà a cercarlo il lavoro…” Lavorare significa consumare, quindi concorrere allo sviluppo del paese: per integrarsi in svizzera non occorre altro… Ecco perché il sistema bancario è il sistema nervoso del paese, che fa da corpo intermedio tra lo Stato e il cittadino. Un esempio visibile in tutta la città anche ad uno sguardo superficiale è quello dei supermercati coop, che nonostante abbiano il logo identico al gruppo imprenditoriale italiano, non hanno con essi nulla a che vedere: ecco quasi ogni supermercato con logo coop a Basilea ha accanto una banca coop…

LA MANIPOLAZIONE POLITICA SULLE SOCIETA’ PARALLELE
La storia sul referendum contro la libera circolazione delle persone è stata semplicemente l’ultima iniziativa della destra svizzera tendente a far leva sulle fobie di massa del nostro tempo. Questo è un paese dove il benessere viene assicurato proprio dalla capacità del singolo di essere produttore e consumatore, garantendo la sua libertà di autodeterminarsi, poiché solo così può essere confermata la possibilità di proporsi in quanto soggetto attivo. In un contesto siffatto metà della popolazione, soprattutto quelli che vivono nei piccoli centri e nelle aree rurali, assecondano il “canto delle sirene” xenofobo, senza rendersi conto che è proprio la xenofobia a minare le fondamenta del benessere elvetico… Questa contraddizione nasce nel 2009, con il primo grande divieto, tramite referendum, che la destra xenofoba riuscì a far passare. Si tratta del divieto di costruire minareti nelle moschee presenti sul territorio svizzero. Ovviamente, come nel caso della libera circolazione, i promotori hanno costruito uno scenario assolutamente immaginario, facendo leva sulle paure oniriche delle persone. L’articolo 15 della Costituzione federale, così recita: “Si garantisce il diritto di scegliere liberamente la propria religione e le proprie convinzioni filosofiche e di professarle individualmente o in comunità”, mentre l’articolo 8 sancisce il divieto di discriminazione. La legislazione federale assicura dunque culto e luoghi di culto, compresi i minareti, poi, per tutto ciò che riguarda la religione e le sue dinamiche sociali la competenza è dei cantoni. Ma perché prendere di mira i minareti? Per il valore simbolico, al fine di accendere la paura della nascita di “società parallele” di tipo islamico, presenti in molte parti d’Europa, cioè gruppi sociali estremamente compartimentati e chiusi sia dal punto di vista sociale che economico, all’interno dei quali possono nascere dinamiche antagoniste al luogo di accoglienza. Un valore simbolico che però nel contesto del territorio nazionale non assume nessun valore. Il minareto, come il campanile cristiano, serve a far arrivare lontano il messaggio che scandisce la giornata liturgica e secondo alcuni studiosi ha anche il significato di conquista o marcatura del territorio. Considerato che nell’intera Svizzera ci sono circa 400.000 musulmani, e solo il 20 per cento è praticante, e considerato che ci sono 200 moschee, di cui solo quattro dispongono di un minareto, e considerato ancora che complessivamente, per il tipo di organizzazione sociale, fondata su precisi precetti socio-economici, il sentimento religioso non è in generale molto vissuto, per tutte queste ragioni si può certamente dire che punire qualsiasi credo per un calcolo di potere, da parte di questo o quel partito, potrebbe realmente portare nel tempo a forme pericolose di ghettizzazione, che otterrebbero l’effetto contrario a quello che pubblicamente cercato. Le grandi città come Ginevra, Zurigo e Basilea a questa contraddizione hanno detto di no…

I NUOVI MIGRANTI
Nell’epoca della globalizzazione si sono trasformati i caratteri che formano l’identikit del nuovo migrante. Si prenda il caso italiano ad esempio. Dalla metà degli anni settanta fino al 2007 anche a Basilea si è registrato un forte calo dei processi migratori. Poi, nuovamente gli italiani hanno ripreso ad emigrare. Ma a livello tipologico non sono gli stessi del dopoguerra, quelli di oggi abbracciano tutte le fasce di età. Ci sono giovani che finiscono l’Università e non trovano sbocchi in Italia. Ci sono professionisti che scelgono di lavorare nelle sedi delle multinazionali, trasferendosi con le proprie famiglie … Ci sono i quaranta/cinquantenni colpiti dalla crisi economica che non riescono a “riciclarsi” e provano la fuga … Ma ai migranti economici si aggiungono chi fugge dal proprio paese per mettersi in salvo. Il tema dell’asilo politico ha un valore simbolico molto importante in Svizzera poiché esso nasce con un trattato firmato dagli stati proprio a Ginevra nel 1951. Durante gli anni novanta in città si era costituita una forte comunità rom proveniente dalla Serbia. Quella turca invece rappresenta forse la comunità più strutturata a Basilea, anche perché è stata attraversata da una emigrazione sia economica che relativa alle protezioni internazionali. Ora, l’esempio della comunità turca è piuttosto emblematica rispetto al tema delle società parallele, poiché negli anni l’interesse di questi cittadini non è stato quello di creare luoghi e dinamiche culturali chiuse, ma bensì quello di costruire una rete economico-imprenditoriale efficiente … Dal 2011, cioè dalle primavere arabe, il numero di richiedenti asilo è sempre più numeroso, come in tutte le parti d’Europa. Eritrea, Somalia, RD Congo sono i paesi sub sahariani di maggiore provenienza. Diciamo però una cosa, che, soprattutto nei casi dei nuovi migranti economici, la concessione del permesso di soggiorno è funzionale al livello di integrazione, anzi potremmo dire che il grado di integrazione può condizionare la concessione del permesso di domicilio … Oppure il permesso di breve durata può essere legato all’obbligo di frequentare qualche corso di formazione. Questi obblighi sono stati stabiliti dentro l’accordo d’integrazione a cui anche il cantone di Basilea città ha fatto ricorso. Ad attivare il contratto di integrazione sono i “Centri di competenza per l’integrazione”, che sono degli sportelli territoriali che fanno l’accoglienza ai nuovi arrivati. Ed è proprio attraverso questo ente che il migrante deve dimostrare di volersi integrare. “Se vuoi lavorare – continua Claudio – non hai nessun problema a trovare un impiego, devi dimostrare di averlo cercato il lavoro o di esserti specializzato per accedere ai servizi sociosanitari. Allo Stato interessa che un cittadino lavori perché in questo modo fa girare soldi… Io i problemi che ho sempre avuto qui a Basilea sono stati dovuti all’assurdità delle regole burocratiche del Consolato italiano … Pensa che per fare una carta d’identità ci impiegano due mesi, per non parlare del passaporto, cosa impensabile da fare attraverso la rappresentanza italiana”.

LE DINAMICHE DEL MELTING POT
Fino al 2013 le persone con cittadinanza svizzera erano 6.202200, in aumento dello 0,5 per cento prevalentemente grazie alle naturalizzazioni. E’ anche questo il motivo che spiega il perché non si può parlare di una popolazione originariamente autoctona. Le dinamiche del melting pot svizzero si sono sviluppate più verso una direzione trans-culturale, cioè in linea col concetto di contaminazione, che non verso la tradizionale dimensione dell’integrazione di una cultura ad un’altra. In effetti camminando per le strade di Basilea è estremamente facile incontrare tantissime coppie miste, e questa semplice realtà di per se racconta una storia diversa rispetto a quelle di città europee della medesima estensione, perché Basilea non è Londra e non è Parigi, ma non è neanche Bologna, la cui dimensione urbana è di poco maggiore rispetto a quella di Basilea. Si, perché anche a Bologna sono presenti 160 nazionalità diverse, pur non essendo una città di frontiera, ma un importantissimo snodo viario per tutta l’Europa centrale. Bene, a Bologna, la città più progressista d’Italia, ancora oggi capita di incrociare sguardi diffidenti nei confronti delle poche coppie miste che camminano per strada mano nella mano. Ma c’è un’altra strana vicenda su cui porre lo sguardo, quella che concerne il rapporto tra le diverse generazioni con background migratorio e i cosiddetti “autoctoni” appunto. Prendiamo il tema delle le conoscenze linguistiche. I migranti di seconda o terza generazione parlano solitamente due o tre lingue nazionali, mentre quelli di prima generazione, insieme agli “autoctoni”, parlano soltanto una lingua nazionale, cioè quella relativa al cantone di appartenenza. Nel contesto della ripartizione per professioni, invece, i cittadini senza passato migratorio sono portatori di caratteristiche similari ai cittadini di seconda generazione, poiché prevalentemente svolgono attività specializzate: professioni tecniche o intermedie, professioni impiegatizie e commercio, artigianato e operai specializzati. I cittadini di prima generazione al contrario sono più coinvolti nei lavori non qualificati: conduttori di impianti e macchinari, addetti al montaggio. C’è da notare che le persone di prima generazione segnalano spesso la necessità sociale di migliorare le proprie conoscenze linguistiche per accedere a posizioni più qualificate. “Quando si parla di lavori non specializzati in Svizzera, – conclude Claudio – mi viene un po’ da sorridere, se penso allo stesso significato che si da a questa espressione in Italia. Secondo me, in questo senso, non ci sono lavori non specializzati, perché qualsiasi cosa ti fanno fare qui, prima devi certificare di aver frequentato corsi di formazione su quello specifico ambito di lavoro…”

LA DIMENSIONE URBANA IN MOVIMENTO
Percorrendo il ponte di Mittlerebrücke, letteralmente ponte di mezzo, a quanto sembra, il più antico mai costruito sul Reno, ad opera di Enrico di Thun, si vede già in lontananza che il letto del fiume s’incunea a forma di gomito verso la Germania. E dire che per secoli quello fu l’unico ponte, dei quattro attuali, a collegare la città grande sulla sinistra da quella piccola sulla destra. Il maggiore sviluppo si ebbe nella parte sinistra, se non altro perché la riva era più alta, con ampi spazi liberi e minori ostacoli dietro. Il particolare sistema morfologico originario di tipo circolare si evolse a forma di poligono, per tornare oggi all’antica sagoma, con dimensioni ovviamente maggiori. Le strade ampie e regolari sono suddivise lungo i sette quartieri della riva sinistra e i quattro su quella destra. E’ chiaro che il modello di sviluppo della città, soprattutto negli ultimi quindici anni, ha avuto un andamento teso ad incidere sulla struttura stessa della popolazione. Il tema è stato, e continua ad essere, quello relativo alle strategie finalizzate ad impedire la formazione di luoghi catalogabili per classi sociali, con zone residenziali per i ricchi e quartieri per i poveri. Una strategia oculata, realizzata attraverso la valorizzazione dei vecchi quartieri popolari, dove si è provveduto a ristrutturare gli edifici fatiscenti, rimettendoli sul mercato a prezzi relativamente calmierati, attraendo in questo modo la classe media come i ceti più deboli. Il progetto che forse meglio rappresenta la visione che sta alla base dell’assetto metropolitano ha riguardato la trasformazione funzionale dello scalo merci ferroviario. Un’area di 250000 mq a cavallo tra la tangenziale e alcuni quartieri ad alto tasso di edifici, con poche aree disimpegnate. Il progetto ha previsto la costruzione di spazi verdi, servizi, l’insediamento sistemi produttivi ma soprattutto nuovi edifici.
Credits Marco Marano
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SAN BERILLO, UNA STORIA MEDITERRANEA
5 gennaio 2015
Da tradizionale ghetto della prostituzione
a modello auto-organizzato d’inclusione sociale

La storia di San Berillo, uno dei quartieri più antichi di Catania, raccoglie in qualche modo tutti gli elementi delle storie di saccheggio e depravazione politica che hanno caratterizzato, attraverso le speculazioni edilizie, il sistematico sventramento dei territori urbani italiani dal dopoguerra ad oggi. Se una data plausibile da cui fare partire questa storia è il 1949, quando l’allora amministrazione comunale nominava la commissione di aggiornamento al piano regolatore, dove si sarebbe incubatala la speculazione di San Berillo, è anche vero che una data di chiusura non c’è, per il semplice fatto che questa storia è ancora aperta… Il 1950 fu l’anno in cui il Consiglio comunale di Catania approvò, la demolizione e la ricostruzione di questo pezzo della città posizionata tra la stazione, il centro ed il mare. Il progetto veniva affidato ad una società creata ad hoc, legata alla Società Generale Immobiliare di proprietà del Vaticano: l’Istica, presieduta dal deputato democistiano Claudio Maiorana. Il progetto veniva poi inserito nel piano regolatore del commissario prefittizio. Una cascata di miliardi di lire erogati dallo Stato e dalla Regione per demolire un’area di 240.000 m2 e ricostruire 1.800.000 m3. A ciò si aggiungeva il business legato agli edifici costruiti per le 30.000 persone deportate in un altra parte della città, nel quartiere di San Leone, che diventerà per proprietà transitiva, San Berillo Nuovo. Mai si era visto e mai si potrà vedere una vera e propria deportazione da un territorio ad un altro dentro una città, sradicando vite e tradizioni a cui erano legate le decine e decine di botteghe, che costituivano l’anima del territorio. C’erano i maestri liutai che convivevano con i maestri pupari, c’erano piccoli mobilifici che le famiglie del quartiere si erano tramandate: era un polmone economico e produttivo della città. I lavori iniziarono nel 1957, l’area venne rasa al suolo, e in seguito in parte ricostruita. Solo un uomo, l’ingegnere Giuseppe Mignemi, capo di una commissione di collaudo, denunciò negli anni sessanta il saccheggio che era stato compiuto ai danni della collettività, portando alla luce una delle più grandi speculazioni edilizie della storia europea. Nel frattempo San Berillo, dall’entrata in vigore della legge Merlin, quando le case chiuse si chiusero alla legalità, diventò poco più che un ghetto, con una decina di strade ed una piazzetta.
L’unico processo penale avviato portò prima alla condanna e poi all’assoluzione il Sindaco dell’epoca La Ferlita, uno dei grandi capri espiatori di questa storia: l’accusa imputava la distrazione di due miliardi e passa di lire in favore dell’Istica. Si perché il vero manovratore di tutta la vicenda fu l’eminenza grigia della politica catanese, il vero e unico imperatore della città: Nino Drago, proconsole di Andreotti nella Sicilia orientale, il quale era riuscito, qualche anno prima, a far arrestare Mignemi per calunnia nei suoi confronti. La vera denuncia dell’ingegnere era proprio contro Drago, che considerava una vera e propria mente criminale. Ma essendo rimasta una opera urbanisticamente incompiuta, essa non poteva che produrre ghettizzazione sociale. E così fu… San Berillo venne da allora consacrato come il quartiere “clandestino” a luci rosse di Catania, dato che la sua anima storica, quella delle botteghe artigiane gli era stata strappata per sempre. Oggi il segno più evidente di questo sventramento, ossidatosi in sessant’anni, è lo squarcio che c’è nell’arteria centrale che dalla stazione si prolunga verso il centro, cioè Corso dei Martiri, con quei 160.000 m2 di pietra lavica, che hanno tutto l’aspetto di vere e proprie catacombe…

In questa storia ci stanno tutti i “segni distintivi” tipici di un modello di drammaturgia sociale del nostro tempo, che diventa in qualche modo modello simbolico, utile per interpretare la realtà. C’è il Potere, in quanto regolatore della dimensione pubblica che perde la sua funzione originaria, per trasformarsi in salvaguardia degli interessi privati. Ma non è soltanto questo. San Berillo è anche il primo grande evento di criminalità politico-territoriale, che come in un laboratorio ha fatto da sintesi a due diverse modalità di organizzazione sociale: quella massonica e quella mafiosa. La prima costituì le ragioni attraverso cui il sistema di “appartenenze” al rito scozzese fece da viatico, nel 1943, alla formazione, per opera degli alleati anglosassoni, di una nuova classe dirigente etnea. La seconda, definì le modalità sub-culturali del gruppo di potere insediatosi nella Democrazia Cristiana agli inizi degli anni cinquanta, conosciuto da tutti con la denominazione di “Giovani Turchi”, di cui Nino Drago fu il capo indiscusso…
Il primo a spiegare il sistema di interessi fondiari catanesi attraverso la lente massomafiosa, fu il professore Giuseppe D’Urso, urbanista dell’Università di Catania e uno dei fondatori della Rete di Leoluca Orlando, figlio del vicesindaco di quella amministrazione del ’49 da cui partì tutta la vicenda… Ma a che serve ancora raccontare questa storia? Forse perché questa storia racconta il motivo per cui oggi l’Italia può essere considerato un paese fallito. Un paese che grazie all’opera di oligarchie funzionali al sistema stesso, hanno fatto man bassa del territorio, non negli ultimi vent’anni, ma negli ultimi sessanta… Forse perché quello che succede oggi non è soltanto causa di una crisi economica, ma che questa ha semplicemente aperto un vaso di pandora… Oppure perché è giusto ricordare, a chi in Italia ha fatto finta di non accorgersi, durante le ultime tre generazioni, che le vicende miserande del meridione sono sempre dovute restare tali, per far arricchire un pugno di “famelici avvoltoi”, dentro e fuori l’apparato dello Stato. Ma anche perché oggi San Berillo può diventare un segno distintivo di qualcos’altro, di una parola che in Sicilia non è molto conosciuta: riscossa… Ma qui un’altra maschera fuoriesce, questa volta diversa dal passato, è la maschera della consapevolezza, identificabile in un gruppo di cittadini i quali hanno deciso che è arrivato il momento di fare a soli. Hanno costituito un Comitato nel segno della cittadinanza attiva: “La nostra mission – osserva Roberto, membro del Comitato – è quella di includere e non escludere, attraverso progetti di cittadinanza attiva: che siano prostitute, che siano senegalesi che siano cittadini singoli o associazioni… Noi siamo una ventina di persone che abitano e che attivamente lavorano nel quartiere, siamo consulenti, professionisti, ingegneri, ecc… E con le istituzioni vogliamo mettere a disposizione le nostre competenze per migliorare il luogo in cui viviamo.”

Negli anni novanta, dai frequentatori del luogo, San Berillo venne soprannominato “Il regno”, a voler sottolineare le sue caratteristiche di entità autonoma dal resto della città, una sorta di porto franco dalla morale collettiva. Un posto davvero sui generis, dove sporcizia, degrado, sfruttamento, violenza, convivevano tutte le notti, quando le porte si aprivano e centinaia di uomini si aggiravano nel buio tra quei vicoli stretti e decadenti… Poi nel 2000 una retata in stile film americano mise fine al regno… Il quartiere bordello si svuotò ma alcune donne e qualche travestito, soprattutto chi aveva case di proprietà, rimase a praticare la sua professione… Franchina è uno di questi, ha da poco preso parte alla pellicola di Maria Arena “Gesù è morto per i peccati degli altri”, film che ha partecipato al Festival dei Popoli di Firenze. Ma Franchina è anche uno scrittore. “Davanti alla porta” è il titolo del libro sulla sua vita nel quartiere: “Molte delle case che negli anni sono rimaste chiuse, – ci racconta Franchina – sono state poi occupate da altri per lavorarci… Il paradosso è che i proprietari sono irrintracciabili, per cui non è possibile fare nessun intervento edilizio…” Cioè in poche parole, non è possibile risanare gli edifici perché i possessori delle case non possono essere rintracciati. Certo, in tal senso non si capisce se questo sia un bene o un male, visto che dopo sessant’anni c’è chi vorrebbe radere ancora tutto al suolo. Esistono interessi fondiari che dagli anni cinquanta si sono proiettati ai giorni nostri, con i nuovi proprietari entrati in campo dopo il fallimento dell’Istica. Ed è questo coacervo di interessi contro cui devono combattere i cittadini del comitato, interessi che vedono famiglie vecchie e nuove, legate agli establishment di destra e di sinistra, fare affari.
C’era una frase che il Prof D’Urso usava citare per descrivere la borghesia catanese: “Catania, città di bancarellari con le sue feste private e pubbliche, dove ognuno espone la propria mercanzia pronto allo scambio. Il guaio è che gli espositori sono politici, imprenditori, operatori economici, alti prelati e ovviamente il grande editore Ciancio…” Ora, in una terra di mafia, se si vuole distruggere socialmente qualcuno o qualcosa prima di tutto lo si delegittima. Il quotidiano La Sicilia, negli anni dell’impero di Drago, aveva proprio la funzione di sistematica legittimazione del sistema e delegittimazione delle richieste sociali contrarie agli interessi del sistema. Questa prassi fu utilissima nella gestione di tutte le questioni, compresi gli scandali, legate al piano regolatore, che non sarà mai applicato, proprio per lasciare mano libera alle speculazioni. La funzione svolta dall’informazione dell’editore Ciancio, uomo dagli straordinari interessi fondiari, è sempre stata direttamente proporzionale alla diffusione della cultura mafiosa e, laddove ce ne fosse stato bisogno, alla delegittimazione di questo o quel nemico. In tanti ricorderanno come il giornale La Sicilia dopo l’omicidio mafioso del giornalista Pippo Fava, di cui proprio oggi cade il trentunesimo anniversario della morte, cercò all’inizio di far rientrare la cosa in “storie di corna”, con una modalità mistificatoria disgustosa.
Nella situazione che stiamo raccontando però ad essere colpito non è il singolo cittadino o la singola organizzazione ma addirittura un intero quartiere. La denuncia è stata lanciata dal settimanale l’Espresso, attraverso un’intervista al regista Edoardo Morabito, autore del primo film grato nel 2013: “I fantasmi di San Berillo”, e quello che dice sembra davvero qualcosa di surreale. In breve, un’associazione denominata Panvision, organizza giri turistici in quello che fu il puttanaio a cielo aperto più grande d’Europa. Ingaggia all’occorrenza prostitute o travestiti come guide turistiche, con la motivazione formale di reinserire le persone nel mondo del lavoro. Quando arrivano tante adesioni al punto da formare un gruppo, al prezzo di 10 euro con l’iscrizione all’associazione, parte il giro chiamato “Catania segreta tour”, alla scoperta della desolazione urbana, per ammirare le case decrepite che non possono essere demolite… C’è qualcosa di totemico in tutto questo, come una sorta di santificazione del degrado che fa parte delle bellezze di una città mafiosa… Il regista Morabito, definisce questa iniziativa turistica una operazione da “zoo piccolo borghese”. Può darsi che sia anche così, ma uno zoo sociale si connota per definizione in quanto ghetto, perché ghetto deve restare, soprattutto se si vuole demolire per ricostruire…
E’ la storia di San Berillo insomma… Ma questa volta la resistenza culturale assume forma nell’azione dei cittadini, che vogliono far rinascere il loro luogo in quanto territorio e non ghetto, perché quel territorio è vivo malgrado ci siano puttane e senegalesi, anzi forse proprio per questo può essere definito l’unico luogo letterario della città, da cui ripensare la città…

“Qui – osserva Roberto – dentro il quartiere non c’è presenza mafiosa, per cui il rapporto con la città è unicamente dimensionato rispetto all’esercizio della prostituzione. Esercitare la prostituzione in Italia non è un reato, però è chiaramente contraria alla morale comune, forse per questo l’amministrazione ci ascolta ma allo stesso tempo è come se ci tenesse a distanza…” Una bella sfida per questi cittadini, riuscire cioè a riqualificare il loro quartiere che porta lo stigma di un luogo per rifiuti della società. Se si aggiunge poi che questa è la motivazione non esplicitata della borghesia mafiosa per demolire quel che rimane, e completare, dopo sessant’anni, il saccheggio, il quadro è completo. Il progetto da cui il comitato è partito si chiama “mappe urbane”, realizzato in collaborazione con l’Università di Catania, attraverso cui alcuni ricercatori hanno somministrato interviste e indagato sulla storia del quartiere, per ricostruire una identità che lo sventramento ha estirpato. “Stiamo lavorando – prosegue Roberto – con dei sociologi urbani della facoltà di Scienze Politiche per individuare proposte di riqualificazione urbana che partano dalle vocazioni del territorio, per svilupparne le potenzialità.” Si avverte come una necessità impellente, camminando per i vicoli di San Berillo, quella cioè di riappropriarsi del passato, di un passato che la città ha dimenticato e non è interessata a ricordare. Un passato rubato che impedisce l’affermazione dei diritti di cittadinanza nei confronti delle puttane e dei travestiti. Ma anche dei senegalesi, che negli ultimi anni hanno costituito una sorta di società chiusa a San Berillo, che si differenzia dalle altre società chiuse di tipo etnico presenti in tutte le città del mondo, perché in questo caso non vi è una volontà a slegarsi dal resto del territorio, ma una necessità, semplicemente perché a San Berillo riescono a trovare un tetto sulla testa a costi per loro sostenibili, che tradotto vuol dire in condizioni inumane… “Noi vogliamo – incalza Roberto – far rinascere questo quartiere in positivo e ci adoperiamo ognuno con le nostre competenze: questa è cittadinanza attiva… Si parla da anni di fare un distretto dell’artigianato, ma non si è mai fatto niente, come sempre a Catania…” Beh, pensare di fare un distretto dell’artigianato, sarebbe una cosa estremamente virtuosa per una città dove deve essere mantenuto lo status quo. Sarebbe un riappropriarsi del proprio passato, delle proprie origini, della propria identità. Probabilmente creare un distretto dell’artigianato a San Berillo sarebbe l’atto antimafioso più straordinario che la città possa fare: forse per questo non si farà mai…

C’era un’altra descrizione del sistema massomafioso catanese cara al Professor D’Urso, che forse spiega meglio la funzione della borghesia: “Catania e i suoi governi, i suoi affari sommersi, i legami parentali e occulti che si sono tramandati di generazione in generazione e che hanno costituito un reticolo intrinsecamente legato al territorio. Una città rigidamente coperta dagli interessi dei ceti salottieri riuniti in logge, che hanno tessuto le loro attività trasformando l’illegalità in ordine costituito.” Il concetto di città coperta è quindi a fondamento della filosofia massomafiosa, dove i legami parentali e le alleanze trasversali diventano un tutt’uno. Ci sono alcune figure politiche, nei sessant’anni di vicende legate a San Berillo, che in qualche modo rientrano appieno in questa descrizione. Sappiamo essere centrale la figura di Nino Drago, che è stata raccontata in spettacoli teatrali come la “Ballata per San Berillo” di Turi Zinna ed Elio Gimbo, dove vengono teatralizzate le caratteristiche cinicamente criminogene di questa specie di Scarface della politica, che ha tenuto sotto scacco una città per quarant’anni.
Ma ci sono alcuni personaggi interessanti da raccontare, che davvero sono maschere di un potere oligarchico di tipo mediterraneo i cui caratteri sono quelli dell’oggi. Nessuno ha mai parlato, ad esempio, delle maschere del Potere che tra il ’49 e il ’53, utilizzarono l’affare di San Berillo come viatico per costruire rendite di posizione personali, istituzionalizzate dalla Democrazia Cristiana. Forse in pochi ricordano che la vera mente strategica dello sventramento di San Berillo fu il maestro di Nino Drago, colui il quale gli fece da sponsor: Domenico Magrì. Era un uomo vicino alla famiglia Segni che iniziò la sua scalata al potere nel ’46, come assessore della giunta Pittari. Ma fu nella giunta successiva che diventò burattinaio, cioè durante la sindacatura di Giovanni Perni. Perché la nomina della nuova commissione di aggiornamento del piano regolatore fu realizzata proprio per produrre le condizioni giuridiche affinché l’operazione potesse essere realizzata. La Democrazia Cristiana dell’epoca era ancora prevalentemente legata ai notabili dell’azione cattolica antifascista, molti dei quali massoni, della corrente sturziana. Una esigua minoranza di questi chiese a gran voce che l’operazione venisse condotta da un ente pubblico, cioè l’Istituto Autonomo Case Popolari, ma la gran parte del partito era tutta schierata con Magrì, che già aveva preso accordi con il Vaticano. Magrì si adoperò per far nascere un altro ente apposito che prendesse l’appalto: l’Istica. A Perni seguì l’anno dopo l’amministrazione Gallo Poggi, un indipendentista alla cui famiglia viene fatto risalire l’incendio del Municipio di Catania nel ’44, sotto forma di sommossa popolare, come ritorsione per non essere entrata dentro il nascituro sistema di potere locale. E qui che si ha il voto del Consiglio comunale per far partire l’operazione e che vede pure il sostegno del partito comunista… Di questa storia andammo a parlare nel ’91 con Franco Pezzino, uno degli esponenti storici del Pci catanese, ma lui sottolineò con insistenza di non ricordarsi affatto di quel voto… Nel ’52 Magrì diventa Sindaco, ma è semplicemente il trampolino che lo porterà poi in parlamento, guadagnandosi grazie a San Berillo i galloni sul campo. Infatti alla fine del ’53 Magrì esce di scena e lascia la sindacatura ad un altro vecchio sturziano, Luigi La Ferlita, che la terrà per sette anni, giusto il tempo di far partire i lavori di sventramento e restare impigliato nella fittissima rete di corruzione creata da Drago, dopo la fase celebrata dalla pubblicistica come “la compravendita delle tessere”. Come ormai scritto nei libri di storia, da quel momento Drago diventa il padrone assoluto della DC e quindi della città, grazie a quei giovani imprenditori che anni dopo saranno denominati da Pippo Fava, i cavalieri dell’apocalisse mafiosa…

“Il nostro è un modello – conclude Roberto – di socialità solidale. La settimana scorsa gli abitanti di uno di questi vicoli hanno voluto organizzare un pranzo per tutti i residenti del quartiere, con una tavolata lungo la strada, e oggi gli abitanti di un’altra strada ricambiano il favore…” Il punto è che una cultura tendente alla socialità solidale è un bisogno sempre più impellente dei tessuti urbani di tutte le città italiane, ne è una prova il laboratorio bolognese delle “social street”, che nel giro di un anno e mezzo ha diffuso, attraverso facebook, un nuovo modello di cittadinanza attiva in tutto il mondo, studiato anche da alcune università italiane. Si tratta di un prototipo di socialità sostenibile, che fa da legame alle differenze culturali, etniche, ed economiche presenti in un territorio, per una migliore qualità della vita, partendo dalla strada in cui si abita. Una strada dove i cittadini stessi si aiutano vicendevolmente sui bisogni quotidiani, ma dove partecipano attivamente, decidendo di fare insieme delle cose che riguardano tutti, di cui tutti ne possano beneficiare. In buona sostanza è questo il lavoro del Comitato dei cittadini attivi di San Berillo, in linea con le poche innovazioni dal basso che si stanno sviluppando in Italia.
Ma a ben guardare il mondo davanti a San Berillo avrebbe bisogno di tanti comitati di cittadini che utilizzassero lo stesso modello di cittadinanza attiva e di inclusione sociale. Perché la Catania di oggi è una città ormai socialmente decomposta, dove la cultura mafiosa ha prevalso sulle dinamiche collettive in modo inarrestabile. Dove il livello di aggressività e inciviltà tra le persone hanno superato il punto di non ritorno. Dove il continuo bisogno di sopraffazione ha trasformato il sistema di relazione tra le persone, nel vissuto quotidiano della città… Ci sono alcuni momenti, come scatti fotografici, che possono essere utilizzati per raccontare una città così… La spiaggia libera della playa, ad esempio, in pieno agosto ricoperta di immondizia, e la gente sdraiata accanto che prende il sole… La donna seduta in una panchina che in seguito ad un colpo di vento viene uccisa da una palma cadutale addosso violentemente, perché a quell’albero non era stata fatta manutenzione… L’assalto mafioso dei “paninari” sul lungomare contro coloro che protestano per l’invadenza di questi carrozzoni abusivi, che sporcano ed evadono le tasse… Le bande dei ragazzini che in centro assaltano altri ragazzini, in una sorta di mimesi da favela… Il parco pubblico dove viene proposto un evento teatrale innovativo per la città, desolante e desolato, persino senza luce elettrica e senza nessun tipo di manutenzione e controllo, tanto che gli spettatori sembrano dover assistere ad un rito satanico. L’accoglienza dei migranti dell’operazione Mare Nostrum, presso il palazzetto dello sport, più simile all’organizzazione di un campo di concentramento che di una emergenza socio-sanitaria… La gestione del Cara di Mineo, entrata nell’inchiesta “Mafia Capitale”, il cui snodo degli interessi era la presidenza della provincia, e in cui sembra che il tesoriere del partito democratico sia anche revisore dei conti delle cooperative che gestiscono la struttura.
In un disastro come questo è impossibile non citare un’altra maschera, quella del sindaco democratico Enzo Bianco. Se dovessimo coniare un titolo da prima pagina per descriverlo potremmo dire: “Cerca l’inquadratura giusta ma non si accorge che il territorio è già sprofondato”. Un uomo che è l’ombra di se stesso, nel ricordo degli anni novanta, quando si parlava della sua primavera… Quando la sua amministrazione stimolò sicuramente un certo risveglio culturale della città, senza però mai toccare gli interessi fondiari, che dopo la fase dei cavalieri dell’apocalisse, videro la centralità della coppia imprenditoriale Ciancio-Virlinzi. Ovviamente anche nella stagione della primavera il piano regolatore non venne realizzato… Poi entrò nel grande gioco nazionale ma ne uscì quasi subito per inconsistenza politica, stessa sorte toccata a Rutelli. C’è un fatto strano da annotare, e cioè che quando Bianco diventò Ministro dell’Interno, il suo capoufficio stampa fu proprio un giornalista di Ciancio… Questo spiega i caratteri dell’ultima maschera di questa storia: l’Editore… Un uomo ricchissimo e potentissimo, che entra nel gioco politico, diventato per transitività massonica gioco degli affari, come fosse il padrone, anche quando trattasi di primavere… C’è da dire che una volta ritornato a fare il primo cittadino di Catania, Bianco ha ereditato una città completamente saccheggiata dagli ultimi due sindaci. La giunta che costituisce però è senza forza propulsiva, senza innovazione, senza una idea su come leggere i problemi della città… Quest’uomo sembra sia rimasto vittima della sua immagine e forse del suo passato… La ricerca spasmodica delle telecamere in tutte le sue uscite pubbliche sembra proprio patologica…
Ma il mondo davanti a San Berillo è anche rappresentato da un edificio che si erge a poche centinaia di metri dal quartiere, e che fa uscire fuori un’altra città, quella del rispetto e della tolleranza nei confronti degli altri credi religiosi: la moschea. La sua inaugurazione è di due anni fa, ma la cosa che più colpisce è che si è potuta realizzare anche grazie ad una colletta a cui tutti i cittadini del quartiere hanno partecipato, soprattutto i meno abbienti: “perché questa gente diversa da noi deve avere un luogo dove pregare il suo dio…”
credits Marco Marano

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