Il processo Cusani/Enimont può essere considerata la quarta tappa di quel percorso storico italiano relativo al rapporto sistemico tra la stampa e i governi del paese. Nei primi tre casi, lo scandalo Montesi (1953/57), il caso Solo (1964/67), il caso Moro (1978), si è trattato di un connubio che ha rappresentato la principale trave del sistema-paese. Ma la tempesta di Mani pulite, all’inizio degli anni novanta, spezzò per un breve tempo questo connubio…
di Marco Marano
Col processo Cusani entriamo all’interno della prima grande esperienza del rito accusatorio nel processo penale in Italia, ma i suoi primati non si fermano certo qui, perché è un evento che racchiude in sè tutti gli elementi e le contraddizioni che hanno portato l’Italia ad una “rivoluzione giudiziaria”, che ha permesso la caduta di un intero sistema politico. E’ dunque chiaro che non siamo di fronte all’ordinarietà di un processo penale i cui delitti possono essere ascritti a fenomeni causali di devianza psicosociale, come uno stupro o un omicidio. Qui siamo di fronte ad un fenomeno che è già stato definito di “devianza di massa”, ascrivibile a un tipo sociale all’interno del quale sono state alterate le norme che regolano il sistema, generando un vuoto anomico. Ma Tangentopoli, con Milano come capitale, non è il solo fenomeno di devianza di massa del tipo sociale italiano. In questa categoria possono essere annoverati i grandi processi di mafia, che come capitale hanno Palermo.
Dal punto di vista giudiziario la denominazione “processo Cusani” potrebbe essere errata; forse meglio sarebbe chiamarlo processo Enimont. Il conflitto tra denominazioni non è un banale gioco semantico, ma rivela di per sé una contraddizione in termini… Sergio Cusani è il rappresentante della Montedison, accusato di illecito finanziamento ai partiti e falso in bilancio. Ma i “fatti in causa”, come li definisce l’accusa, si sviluppano su procedimenti paralleli: “La corruzione di pubblici ufficiali in concorso con esponenti politici e in concorso con esponenti, amministratori e dirigenti della Montedison e della Ferfin…” In altre parole si sviluppa un procedimento di concussione e corruzione. In questi casi, l’accusa si propone di determinare, rispetto ai risultati in divenire del processo, in che termini si possono ripartire le responsabilità. A tal proposito essa riesce ad ottenere la convocazione dei cinque segretari dei partiti di maggioranza dell’epoca, in qualità di indagati.
La linea difensiva mira ad ottenere una graduazione delle responsabilità, cioè a stabilire se abbia avuto più colpa Cusani dei politici corrotti o degli imprenditori corruttori. La difesa non punta ovviamente sulla responsabilità di un uomo, ma sulla fisiologia di un sistema di illegalità a cui l’uomo non poteva sottrarsi… Questo processo è nei confronti dell’uomo o nei confronti del sistema di illegalità ai più alti livelli istituzionali? Per i media, inizialmente, il processo è all’uomo, per la naturale predisposizione narrativa del mezzo alla personalizzazione dell’evento; per l’accusa il processo è anche, e forse soprattutto, al sistema. Questa lettura è possibile per la presenza stessa del secondo troncone procedurale, che permette all’accusa di chiamare alla sbarra, come inquisiti, i maggiori rappresentanti del sistema politico. E’ in questo campo che si manifesta la sindrome di Clitennestra…
Analizziamo i tre poteri sistemici in campo: sistema politico, sistema dei media e sistema giudiziario. Il sistema informativo in Italia ha tradizionali caratteristiche che lo differenziano dagli altri modelli occidentali perché ha esautorato la propria autonomia in ragione d’un processo simbiotico col potere politico. Una simile condizione ha tolto la possibilità al mondo dell’informazione di ergersi a vero e proprio “Quarto potere”, nella sua funzione di contrappeso al potere politico. I media non hanno quasi mai potuto svolgere un ruolo proponente, in linea con le aspettative del mondo sociale, ma hanno registrato eventi, manipolandoli in difesa della parte politica ad essi più vicina. I motivi di questa situazione storica sono risalenti alla fine della seconda guerra mondiale; fatto sta che il maxi scandalo di Tangentopoli, trasformatosi in “rivoluzione”, non è stato prodotto dai media ma dalla magistratura. In questo contesto i media si sono trovati in una situazione mai verificatasi in precedenza, per cui i loro obiettivi sono confluiti in quelli della magistratura. “Ecco l’obiettivo strategico su cui gli interessi dei media-men e gli interessi dei magistrati coincidono: la creazione di una fascia di consenso quanto più larga possibile, la cui protezione serve per superare le soglie di insabbiamento, di autocensure, di connivenze che per tanti anni le avevano bloccate; e serve ai media, oltre che per vendere copie, per salvarsi dall’autodafé e legittimarsi di fronte a qualunque futuro inquilino del Palazzo (in alcuni casi – anche – per ritrovare il gusto per la professione)”.
L’interazione tra la magistratura e informazione sposta l’asse del ragionamento su un nuovo versante, che attiene ai ruoli e alle funzioni ricoperte dai singoli sistemi. Se è la magistratura a tenere il gioco sulla circolazione delle notizie, che siano esse dibattimentali o confidenziali, ai media resta un’unica funzione, quella di legarsi alle aspettative del sociale, con l’ “eroica” defenestrazione del potere politico, elemento esterno alle ragioni proprie del dibattimento: è la “sindrome del cambiamento”. Adesso anche per i media il processo non è a Cusani ma al Palazzo. Impossibilitati a costruire una loro realtà, hanno assecondato del sociale l’umore del riscatto dal giogo di un Potere, quasi hobbesiano. Per i meccanismi insiti nei processi di costruzione della mitologia di massa, l’umore del riscatto ha trovato facile rispondenza nella figura del giudice Di Pietro. Le ragioni sono diverse: in primo luogo perché è stato l’inquisitore del sistema politico corrotto, colui il quale è riuscito a mettere alla sbarra i grandi potenti. E’ infatti questo il momento più significativo del processo Cusani, ed è questo il segmento del dibattimento che connota il personaggio di fronte al sociale e lo rende epico ed eroico. Di Pietro è poi un uomo che parla il linguaggio della gente comune, poco lineare e a volte volutamente marcato (la frase “che c’azzecca” è ormai entrata nel lessico comune): è un giudice che sembra abbattere i tabù non solo dal punto di vista del potere, ma anche dell’immagine. E’ vicino ai cittadini proprio perchè è uno di loro. Infine, nella sua originaria essenza, che richiama l’onestà e la pulizia, spiccano i suoi metodi, che sono dinamici, in alcuni casi forse troppo, e moderni, soprattutto nell’uso dell’informatica.
Dal punto di vista narrativo le dinamiche anche nel modello italiano è presente una “sindrome di Clitennestra”, originata dal meccanismo di identificazione col sociale, innescato dal “medium”, in quanto elemento esterno al contenuto intrinseco del procedimento dibattimentale. Nel modello americano questo è un elemento tradizionalmente costante nella funzione dei media, mentre in quello italiano compare per la prima volta, poiché ci si è trovati quasi all’improvviso di fronte ad un complessivo slittamento di ruolo tra sistema politico, sistema giudiziario e sistema dei media. I soggetti delle rappresentazioni mediali nei due modelli invece divergono. In quello statunitense il gioco tra realtà e contro-realtà, quindi tra tesi e antitesi è strutturato attorno al protagonismo dell’accusa e della difesa, la quale utilizza i media al fine di azionare la “sindrome di Clitennestra”, per mobilitare l’opinione pubblica su un fatto e trasformarlo da giudiziario, a umano, sociale, razziale o quant’altro.
Nel caso italiano (in realtà non dovremmo parlare di modello poiché non esiste un universo di casi statistici per considerarlo tale) non vi sono una realtà e una contro-realtà, una tesi ed una antitesi tra accusa e difesa. Questo perché l’interesse del dibattimento non è che un anonimo finanziere facesse da mediatore in fatti di corruzione, ma che tramite questo finanziere si potesse risalire nominalmente al ceto politico corrotto, e quindi inquisito nell’ambito del processo. Non essendoci nessuna realtà da contrapporre, dal punto di vista massmediologico, la via non poteva che essere quella di seguire l’umore sociale, non come tesi ma come cambiamento generazionale. L’eroe non può in questo caso essere “Perry Mason”, cioè un avvocato e quindi un cittadino privato, ma colui il quale è istituzionalmente l’espressione della certezza e della supremazia del diritto: il magistrato, l’inquisitore dei malvagi…
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