di Marco Marano
Con l’inasprirsi del processo di islamizzazione che ha coinvolto l’intero paese, insieme alla nuova intesa del potere autocratico con le forze nazionaliste, e non da ultimo con la repressione delle libertà di stampa e manifestazione del pensiero, il modello turco di Stato laico voluto dal fondatore della patria Atatürk, è ormai finito. Istanbul, città globale e sintesi della storia tra occidente e oriente, modello di convivenza tra laicismo e islamismo, è ormai caduta…
Bologna, 22 giugno 2016 – Era il primo venerdì del novembre 2013, quando per la prima volta calpestavamo le strade di Istanbul. Le proteste al Gezy Park erano avvenute a fine maggio e la città sembrava resistere a quello strano vento di autoritarismo, miscelato di vari elementi: islamismo, neoliberismo, nazionalismo, corruzione, repressione nei confronti della questione kurda… Tutto condensato nelle mani del capo supremo della nazione: Recep Tayyip Erdoğan, che da primo ministro diventerà negli anni a venire presidente assoluto…
Il nostro collegamento con la città era una giovane guida, che aveva studiato in Italia: Senih. Un ragazzo dalla faccia pulita, laico, culturalmente anarchico, molto preparato, parlava italiano e inglese perfettamente. Uno di quei giovani cosmopoliti che rappresentano la parte non dogmatica della città, appunto laica. Perché il laicismo, fino a quel momento, ha rappresentato l’elemento caratterizzante della Turchia, dividendo a metà la società: dall’altra parte i seguaci dell’islamismo. Ma lo stato era assolutamente laico. Così aveva voluto il padre della patria Mustafa Kemal Atatürk, fondatore della Turchia e primo presidente, dopo la disfatta dell’impero ottomano: era il 20 ottobre del 1923…
In quel venerdì, dopo il risveglio della prima preghiera del mattino, da parte degli imam, la cui voce veniva diffusa dagli altoparlanti, un piccolissimo e forse banale evento contribuì a darci la chiave di lettura di questa città che, insieme ad Atene e a Roma, può essere considerata la culla della civiltà. Il venerdì vi è una sola moschea a Istanbul dove i turisti possono mischiarsi ai fedeli, quella principale di Sultanahmet, il quartiere storico, in cui sono concentrate le moschee più antiche: dalla moschea Blu a Santa Sofia, luogo assolutamente unico al mondo.
Un quartiere storico insomma, dove dedali di strade s’intersecano creando tante casbah senza soluzione di continuità. La sua morfologia urbana si sposa perfettamente con le atmosfere mediorientali che si respirano nelle stradine. Dentro i mercati all’aperto, che spuntano improvvisamente, c’è tutto il senso di quel pezzo di cittadinanza che di commerci, anche piccoli, vive, in linea con la storia levantina di quel porto che oggi ospita l’imbarcadero, per il tour tra la costa asiatica e quella europea.
Eppure fino agli inizi degli anni ottanta Sultanahmet era un quartiere degradato, poi in seguito ad un piano di sviluppo urbano divenne il quartiere simbolo della città, che accoglie carovane di turisti da tutto il mondo… Infatti è proprio lì che il 12 gennaio di quest’anno un affiliato siriano all’Isis si è fatto esplodere, proprio nei pressi dell’obelisco di Teodosio, nella piazza centrale del quartiere. Lì sono concentrati una miriade di pulman organizzati dai tour operator, poiché a pochi metri l’una dall’altra vi stanno le due moschee antiche: 10 morti e 15 feriti, quasi tutti turisti tedeschi, fu il bilancio di quell’attentato.
Quel venerdì, insomma, nella moschea principale di Sultanahmet, accadde un piccolo grande evento. Come è noto, prima di entrare nella moschea occorre togliersi le scarpe e le donne devono indossare un copricapo. Senih, la nostra guida, si arrabbiò con un paio di turiste entrate senza questo accorgimento, urlandogli dietro: “Io non sono musulmano, ma è una questione di rispetto nei confronti di ciò che rappresenta questo tempio per la gente che viene a pregare…”
Se da un lato circa metà della popolazione è musulmana, dall’altro, fino a quel momento c’era un rispetto profondo per le ritualità religiose da parte di chi non era credente. Sembrava una dimensione di grande solidarietà comunitaria, forse anche legata alla fortissima identità di popolo, che poteva mettere insieme un credo millenario come l’islamismo con il laicismo della società digitale. In quegli anni scrivevamo che questa forma di rispetto tra chi è credente e chi non lo è poteva essere un interessante modello sociale, malgrado i venti autoritari che stavano cominciando a soffiare.
Camminando per le strade di Istanbul era proprio questa l’aria che si respirava: la donna col burka accanto alla ragazza con il tacco 12 che aspettavano insieme il bus… Dopo tutto Istanbul, come dicevamo, è una delle culle della storia umana, e le sue vicende millenarie erano fino a poco tempo fa la chiave di lettura dei temi del nostro oggi: Islam/occidente, democrazie/autocrazie religiose, Europa dei popoli/economie neoliberali…
La tendenza all’autoritarismo del “sultano” sunnita Erdoğan è stata un crescendo straordinario nel giro di questi ultimi tre anni… La sua impresa di islamizzare la Turchia a livello simbolico la si può far risalire proprio ai fatti di Gezy Park, nel maggio del 2013, quando migliaia di giovani laici occuparono il piccolo parco poiché il “sultano” lì voleva costruire un centro commerciale ed una moschea. A quel tempo fu la magistratura ad impedirlo, poiché ancora non era stata inghiottita dall’autocrate islamico.
C’è da dire che il Grezy park è una fetta dell’immensa piazza Taksim, luogo della rivolta giovanile, ma rappresenta anche la modernità. In piazza Taksim la forbice tra abbienti e meno abbienti la si può guardare direttamente: lo shopping delle grandi arterie adiacenti stridono con i “bambini da strada” ed una quantità incredibile di persone praticamente “svenute” nei prati del parco. Infatti le proteste erano in realtà un grido di allarme, contro un governo che aveva alimentato la corruzione sistemica nel paese, aumentando le sacche di povertà, devianza e ingiustizie.
L’autorità costituita, attraverso una sorta di sviluppo economico urbano, implementava una corruzione sistemica attraverso la gestione degli appalti, nelle cui maglie la famiglia del sultano è stata trovata con le mani in pasta, facendo parlare gli economisti di “crescita gonfiata”. Si tratta di una sorta di “neoliberismo islamico” , dove attraverso la nuova frontiera delle opere pubbliche, che siano moschee da costruire o ristrutturare o centri commerciali o grattacieli, l’impetuosa circolazione di denaro viene gestita arricchendo le consorterie familistiche, attraverso le speculazioni edilizie. Che sia islamico o occidentale, il punto è che il liberismo per definizione produce fisiologicamente espulsione dai meccanismi economici della società, con le conseguenti patologie sociali che tutti conosciamo…
L’economia drogata da corruzione e sommerso è possibile toccarla con mano tra le strade della città. L’assenza di regole sembra un fatto sociale conclamato a cominciare da quelle stradali che non esistono… Ma quando si cammina per quei dedali di strade, tra bancarelle e personaggi che sbarcano il lunario come possono, diventa difficile non pensare che questa semplicissima realtà quotidiana, fa da contraltare al boom economico che la Turchia sembrava aver avuto negli ultimi anni, semplicemente perché il livello di economia sommersa è così diffuso sul territorio che ha più peso di quello reale…
Il consolidamento dell’islamizzazione del potere voluto dal “sultano” va di pari passo con la guerra in Siria, la cui Turchia è confinante in quella striscia a sud del paese dove sono insediate le comunità kurde, le quali da un secolo rivendicano, anche in Turchia, l’autonomia culturale, repressa nel sangue. Ma la guerriglia del PKK, il partito kurdo legato al leader Abdullah Öcalan, attualmente agli arresti, nasconde un’altra realtà emersa da poco agli occhi dell’occidente, anche se i paesi democratici non sono interessati a prenderne atto. Perché tra il 2012 e il 2015 la Turchia è stata lo snodo delle autostrade della jihad, percorse dai cittadini europei che volevano affiliarsi all’Isis, per andare a combattere sul territorio siriano: i cosiddetti “foreign fighters“.
Adana, a 200 chilometri dal confine con la Siria, è proprio il luogo in cui si concentravano quei cittadini europei che decidevano di andare a combattere per la jihad. Istanbul diventava il punto di snodo logistico e organizzativo: gli affiliati turchi gestivano appartamenti, per il periodo di attesa, monitorando i collegamenti con la Siria occupata. Non solo. Si è poi scoperto che gli affari con l’Isis riguardavano il traffico di armi e il petrolio di contrabbando…
Formalmente la guerra all’Isis viene usata da Erdoğan per assimilare nel mucchio del terrorismo anche le istanze di libertà e indipendenza del popolo kurdo, sia in Siria, la cui resistenza, principalmente delle organizzazioni femminili, combatte direttamente contro lo Stato islamico, che in Turchia, contro il PKK, con cui dall’estate scorsa ha ripreso un vero e proprio scontro armato. Sempre di più il potere diventa violento e i primi a farne le spese sono i giornali di opposizione che vengono chiusi senza colpo ferire, mentre i giornalisti vengono arrestati con l’accusa di attentato contro lo stato.
Proprio nel periodo delle ultime elezioni politiche nel novembre 2015, i nodi sono venuti al pettine e l’autoritarismo del regime ha preso le sembianze di un ibrido storico, in linea forse con le tendenze del nuovo fascismo che dall’Europa dell’est si stanno allungando ai paesi del centro e nord Europa, coinvolgendo ultimamente persino l’Inghilterra con l’omicidio di Jo Cox, in piena campagna antibrexit. Quello di Erdoğan è ormai diventato un regime totalitario a tutti gli effetti dato il controllo sui tre poteri dello Stato, l’annientamento della libertà di stampa, con l’arresto dei giornalisti di opposizione, l’arresto di chiunque esprima un pensiero pubblicamente contro il regime. Un nuovo fascismo di tipo islamico ma neoliberista poiché anziché statalizzare privatizza alle cerchie e ai clan legati al sistema di potere.
Così arriviamo alla disfatta di Istanbul, con i fatti degli ultimi giorni, che chiudono il cerchio e mettono la parola fine alla città cosmopolita a cavallo tra l’oriente e l’occidente. Sono tre gli eventi che la fanno sprofondare nel buio dell’oscurantismo autoritario. Innanzitutto c’è l’annuncio del “sultano” che il progetto chiamato di “riqualificazione” di piazza Taksim verrà ripreso e attuato:
“Si tratta di un imponente progetto immobiliare nel cuore della parte europea della città, formato da un complesso di edifici residenziali e commerciali che prevede la realizzazione della copia di una caserma ottomana e di una grande moschea, oltre a un centro commerciale.”
Un venerdì sera, quartiere della movida di Tophane, nel negozio di dischi Velvet Indie Ground, è in corso una festa di presentazione del nuovo disco dei Radiohead. Sono tutti giovani che bevono birra e alcolici vari. Arrivano una ventina di uomini armati di spranghe e bastoni. Fanno irruzione nel locale, lo devastano, picchiano i presenti, insultandoli di blasfemia poiché il party non è rispettoso dei precetti dell’islam, in periodo di Ramadam… Ecco, per la prima le due anime della città, quella laica e quella islamica, diventano nemiche e la violenza religiosa cerca di annientare i fondamenti dello Stato creato da Atatürk. In un video su Youtube uno degli assalitori minaccia uccisioni apostrofando i ragazzi che partecipavano alla festa come “bastardi”. Come se non bastasse, il commando non è stato perseguito e durante la manifestazione, nel centrale quartiere Cihangir, per difendere la laicità del paese, centinaia di persone sono state caricate dalla polizia che ha usato proiettili di gomma, lacrimogeni e idranti…
Qualche giorno dopo, cominciano ad uscire fuori dichiarazioni minacciose, da parte sia di organizzazioni ultra-nazionaliste che anche islamiche, contro il Gay Pride. C’è questa “Alperen Ocaklari”, un’organizzazione d’ispirazione fascista che ha intimato alle autorità di fermare il corteo poiché viceversa ci avrebbero pensato loro, richiamando il Ramadam come momento sacro. La manifestazione viene vietata, ma gli organizzatori cercano di sfilare ugualmente. Neanche a dirlo, “giù mazzate” dalla polizia: i soliti idranti e le solite pallottole di gomma…
Con la caduta di Istanbul, si chiude un secolo di storia in nome del rispetto tra islamismo e laicità…
Credits Marco Marano/Radio Cento Mondi