Morire per essere un giorno liberi
di Marco Marano
Quella che ci accingiamo a raccontare è la storia di un popolo oppresso, un popolo guerriero, un popolo poeta: è la storia del popolo kurdo. Un popolo che è nato combattendo. Se dapprima aspirava all’indipendenza, in quanto popolo che vive su quattro nazioni, con la nascita del Rojava e della Confederazione del Nord della Siria, che ha raccolto varie “etnie”, oltre a quella kurda, l’aspirazione si è identificata con l’Autonomia regionale, dentro uno Stato siriano.
E’ per questo che i kurdi si sono sempre dichiarati “combattenti per la libertà”. E’ per questo che con la loro forza, ed il supporto degli Stati Uniti, sono riusciti a sconfiggere l’Isis sul campo. Poi però c’è stato il coltraltare, poiché se i kurdi sono stati partner della comunità occidentale, dal Sultano Erdogan, sono da sempre considerati terroristi, per questo aspramente combattuti e repressi.
Ora, succede che proprio questa situazione ci fa perdere il senso, ci fa cioè entrare dentro un labirinto dove oggettivamente diventa difficile non smarrirsi… E una volta incamminati dentro questa storia non possiamo fare altro di cercare il punto di uscita, che poi corrisponde alla comprensione dei fatti.
Ci imbattiamo in un assai contorto labirinto dei segni: il popolo kurdo, alleato degli Stati Uniti, riesce a sconfiggere sul campo i tagliagole dell’Isis, però viene combattuto dall’autocrate turco, in quanto popolo terrorista. Già ci siamo persi… Troviamo un imboccatura, la percorriamo.
Ci sono le storie dei giovani europei invaghiti dell’Isis, che decidono di partire per la Siria al fine di combattere sul campo i kurdi e non solo… Ma dove fanno base per arrivare a destinazione? In Turchia, ad Istambul… Ma come, se l’autocrate turco è membro della Nato, la quale ha messo in campo la sua guerra contro l’Isis, com’è possibile che i servizi segreti turchi supportino l’Isis in casa loro, facilitando tutto il sistema logistico dello stato islamico? Difficile ritrovare un punto d’uscita.
Così, vagando per ritrovare il senso delle cose, il senso dei fatti, ci ritroviamo dentro la guerra per procura, così la chiamano. Si tratta di uno spazio simbolico, ma anche fisico, dove non si comprende bene chi sono i nemici da combattere. Da un lato i jihadisti dell’Isis, nemici del mondo occidentale, guerreggiano in Medio Oriente, tra Siria e Iraq. Dall’altro la composizione delle Forze Democratiche Siriane, capeggiate dai kurdi, pone al centro la strategia di guerra sul territorio al sedicente Stato islamico, avversati però dalla Turchia e forse usati dal dittatore siriano Assad.
Cerchiamo una strada di senso tra Medio Oriente ed Europa. In Medio Oriente, il Sedicente Stato islamico (IS) o Stato islamico della Siria e del Levante (Isis) o ancora Daesch, in due anni ha messo su un esercito, tra le 25 mila e le 30 mila unità.
Intanto in Europa si stigmatizza lo stragismo jihadista in quanto guerra dei musulmani contro l’occidente. Il problema che però ci fa sprofondare nel labirinto dei segni è il seguente: l’Isis viene combattuta sul campo proprio da un popolo a maggioranza sunnita, mentre la Turchia, sempre sunnita, alleata dell’occidente, continua a favorire gli stragisti dello Stato islamico sui varchi di confine con la Siria, guerreggiando in casa contro l’unica vera resistenza ai massacratori di Parigi, cioè i kurdi…
Un altro scenario ci si impone innanzi, ma è sempre la stessa guerra per procura… All’apertura dei varchi si è dichiaratamente opposto Putin, non per appoggiare la resistenza kurda, ma per intrappolare le milizie jihadiste, considerato che le sue bombe colpiscono indifferentemente chi si schiera contro Assad, quindi anche i kurdi. Per tutta risposta Erdogan, il sultano, ha fatto fuori un aereo da combattimento russo…
Scivoliamo lungo i corridoi del labirinto… C’é un avvocato difensore della causa kurda. Sta parlando ai microfoni di una rete televisiva. Poi viene assassinato in diretta. Nel frattempo due giornalisti vengono arrestati su mandato del governo turco, per aver pubblicato le notizie sul traffico d’armi al confine con la Siria.
Non sono passate poche ore da questi due eventi che l’Unione Europea conclude l’accordo con il califfo del terrore Erdogan, per trattenere in Turchia i rifugiati siriani che scappano da una guerra foraggiata dallo stesso “sultanato turco”.
E noi ci siamo completamente persi dentro il labirinto dei segni.
Come affiliarsi all’Isis
Era il 22 ottobre 2015 quando entrammo in questo labirinto. S. H. Non ha ancora compito 16 anni. Nata nella provincia di Piacenza, con passaporto italiano, vive nella periferia parigina con la sua famiglia. Tre settimane fa, da sola, mentre i genitori non erano neanche in Francia, decide di fare un viaggio verso Adana, in Turchia, a 200 chilometri dal confine con la Siria. E’ proprio quello lo snodo delle autostrade della jihad, percorse dai cittadini europei che vogliono affiliarsi all’Isis, per andare a combattere sul territorio siriano: i cosiddetti “foreign fighters”.
L’internazionale giovanile del terrore
Presumibilmente, la ragazza, il viaggio non lo ha affrontato da sola, poiché sono state fermate altre quattro cittadine francesi, ma anche tedesche, una tunisina, un’egiziana, un’indonesiana ed una saudita. La sua giovane età ha insospettito la polizia turca, che l’ha trattenuta in un centro di detenzione, dell’ufficio immigrazione locale.
La logistica turca
Da ciò che si evince, dalle scarne notizie filtrate, sembrerebbe che le ragazze fossero supportate da un cittadino turco, arrestato dalla polizia per essere fiancheggiatore dello Stato Islamico. Questo avrebbe fornito supporto logistico alle aspiranti reclute jihadiste del Califfato, aiutandole ad affittare un appartamento ad Adana, ma anche mettendole in collegamento con il comando dell’Isis oltre confine, in attesa di partire.
L’espulsione
Al momento del fermo il Ministero degli Esteri italiano aveva confermato il fatto, sottolineando che se ne sarebbe occupato il consolato di Smirne, in stretto contatto con la famiglia e le autorità locali, anche perché occorreva stabilire se la ragazza avesse carichi pendenti sul territorio turco. Ieri la vicenda si è conclusa con la sua espulsione.
I dati sui foreign fighters
Ma la protagonista di questa storia non è certo l’unica italiana tra i potenziali “foreign fighters”: i dati parlano di 81 persone, tra cui molte donne, come il caso esploso quest’estate… Maria Giulia Sergio, donna ventottenne, di origine napoletana ma che viveva nel milanese, insieme al marito albanese, cerò di cooptare dentro l’Isis la sua famiglie e quella di suo marito, che poi vennero arrestati. Molti elementi restano comunque oscuri in questa ultima vicenda: come sono riuscite a collegarsi alla rete jihadista le ragazze partite da Parigi? Chi ha finanziato il viaggio e come è stato organizzato?
Gli adolescenti europei che sposano il terrore
Presumibilmente tutto è avvenuto attraverso web, come esperienza insegna… Ma ci sarebbe anche da chiedersi com’è possibile che i genitori siano stati dei fantasmi, rispetto alla scelta dell’adolescente piacentina… E ancora di più, ci sarebbe da domandarsi: come arriva una sedicenne a sposare la causa jihadista dell’Isis…? Perché è troppo facile pensare che i paesi europei e i loro governi, da cui fuggono questi giovani, non abbiano nessuna responsabilità in tutto questo…
Una trattativa per la transizione
L’incontro a Damasco sulle trattative per la transizione del paese, tra Assad ed il Ministro degli esteri dell’Oman, Yusuf bin Alawi, attuale mediatore, alleato degli USA che mantiene buoni rapporti con l’Iran, si è svolto il 26 ottobre 2015, in un clima di decodifica aberrante.
La nascita delle Forze Democratiche Siriane
In questa sede il dittatore siriano ha dichiarato che l’ipotesi di elezioni saranno possibili solo dopo aver sconfitto il terrorismo, senza specificare se per terrorismo s’intende l’Isis o anche i gruppi che combattono sul territorio, come le Forze Democratiche Siriane, un cartello di 13 organizzazioni, che nei giorni scorsi hanno sottoscritto un documento, dove si dichiara che la lotta contro Assad è finalizzata alla costruzione di una Siria democratica: «…Questo passo in avanti verso la democrazia permetterà l’unità democratica di tutti i popoli siriani sulla base della libertà delle donne. Il nostro obiettivo fondamentale è la fondazione della Siria democratica».
Le minacce di Erdogan ai kurdi dentro e fuori la Turchia
Era il 4 novembre 2015 quando una dichiarazione del capo delegazione degli osservatori del Consiglio d’Europa, fotografava la dissonanza tra le parole e i fatti di un Europa che crolla lentamente a pezzi, visto che due settimane prima la cancelliera Merkel si recava in Turchia a stringere un patto con l’autocrate turco, per accelerarne l’entrata nell’Unione Europea in cambio della completa gestione dei rifugiati che scappano da Siria, Iraq e Afghanistan, nel nord della Turchia.
Regolamento di conti
Ed infatti la risposta di Erdogan non si è fatta attendere, proponendo più che una riconciliazione, un regolamento dei conti, poiché ha già annunciato l’intenzione di voler cambiare la Costituzione in senso presidenzialista, in modo tale da restare al potere il più a lungo possibile, da dittatore conclamato, anche per poter gestire al meglio le accuse di corruzione contro di lui e la sua famiglia.
Una manciata di voti per cambiare la Costituzione
Per poterlo fare ha bisogno di una manciata di voti che mancano all’appello in parlamento. Così è sua intenzione convocare, in una sorta di “tavolo aperto”, i partiti che è riuscito a cannibalizzare durante l’ultima tornata elettorale. Se questo non si potrà fare verrà promosso un referendum, e i partiti si assumeranno le loro responsabilità…
E’ guerra al PKK
Dall’altro lato ha emesso una vera e propria dichiarazione di guerra contro il popolo kurdo: “Non ci sarà alcuna interruzione nelle operazioni militari finché il Pkk non verrà eliminato. Il periodo che verrà non sarà un periodo di negoziati, ma di risultati”.
Terrorismi mediorientali
Il 5 novembre del 2015 si fa avanti una considerazione sui fronti di delirio che non ci consente di comprendere.
Lo scopo dell’Isis, potremmo dire delirante, è quello d’impossessarsi dei due Stati in questione (Siria e Iraq) e farne un califfato. Ma l’elemento che salta agli occhi è la differenza delle sue metodologie d’azione con l’organizzazione che l’ha preceduta, cioè Al-Qaeda, quella che ha scosso il mondo con la strage delle torri gemelle. Perché a differenza di quest’ultima l’Isis, si caratterizza per due elementi…
Metodologie terroristiche
Il primo riguarda l’uso dei kamikaze come strumento residuale della sua azione, poiché, a differenza di Al-Qaeda, possiede un esercito irregolare che agisce direttamente sul campo di battaglia. Il secondo concerne il suo principale bersaglio, proprio perché sta sul campo di battaglia: non è l’occidente ma gli stessi musulmani, e neanche soltanto sciiti, ma anche sunniti. A testimonianza di ciò c’è il cruento scontro bellico che l’Isis ha con i kurdi, che sono a maggioranza sunnita, anche se le sfaccettature religiose di questo popolo sono storicamente variegate.
Dentro i labirinti
Le medesime rivendicazioni di autonomia e libertà che il popolo kurdo avanza nei vari campi di battaglia mediorientali contro l’Isis, li rivendica anche in Turchia, paese alleato degli Stati Uniti e dell’Europa, con cui sta contrattando la sua entrate nell’Unione, per tenere fuori dal continente quei rifugiati che scappano soprattutto a causa della guerra dell’Isis in Siria.
Nella riunione del G20, il 15 novembre 2015, svoltasi proprio in Turchia, gli Stati Uniti hanno richiesto la sua presenza al proprio fianco, contro i jihadisti. Dopo la vittoria elettorale di pochi giorni fa, Erdogan ha ripreso una repressione spietata contro il popolo kurdo, e l’esempio della resistenza nella città di Silvan è esplicativa in termini assoluti.
Come alterare i fatti
Ma il labirinto dei segni a tal punto si fa sempre più fitto, poiché le sigle della resistenza kurda, presenti tra Silvan e Kobane, sono state protagoniste della peggiore sconfitta inflitta all’Isis proprio due giorni prima dell’assalto a Parigi: HPG (Forze di Difesa del Popolo), YJA (Truppe delle donne libere), YBS (Resistenza Unita di Shengal) e YPJ (Unità di difesa delle donne). E’ la storia della liberazione di Sinjar, Shengal in lingua kurda, città posizionata nella regione autonoma del Kurdistan iracheno, quella dei peshmerga.
Rispetto alle ricostruzioni giornalistiche fatte dai media occidentali, sono stati proprio i peshmerga a liberare la città, supportati dall’aviazione statunitense che ha aperto i varchi. In realtà, andando a ricostruire i fatti attraverso l’agenzia di stampa kurda ANF News, abbiamo scoperto che insieme ai peshmerga il grosso dei contingenti militari sul campo appartenevano proprio a quelle sigle, ignorate dai media occidentali, che già da mesi cercavano di sfiancare l’Isis con attacchi sporadici. L’Operation Free Sinjar, sostenuta dall’aviazione americana, ha avuto lo scopo, di riprendere il controllo dell’autostrada 47, cioè la via di comunicazione strategica per i rifornimenti dell’Isis, tra la città irachena di Mosul e quella siriana di Raqqa.
Questa arteria era fondamentale per i rifornimenti logistici dell’Isis in Siria, che adesso avrà molte difficoltà a portare avanti la sua offensiva. Nel frattempo la liberazione di Sinjar ha permesso ai kurdi di liberare moltissime donne yazidi ridotte in schiavitù, 80 delle quali trovate morte in una fossa comune, dopo il massacro perpetrato nel 2014.
La guerra di resistenza all’Isis del popolo kurdo
L’area in cui si continua a combattere è quella di Kobane, nel cosiddetto Kurdistan occidentale o siriano, ribattezzato Rojava. I dispacci di guerra dell’Ufficio stampa dell’YPG, al 27 novembre 2015, parlano di quattro assalti in rispettivi villaggi, che fanno riferimento alla cittadina di Ayn Isa, tutto nell’arco di una trentina di ore.
Sotto tiro
Il primo villaggio sotto tiro, con armi pesanti, dei jihadisti è stato Ayn Mixêra, durato un paio d’ore, tra le 14 e le 16 del 21 novembre, per poi ripetersi intorno alle 10 del giorno seguente. Nel frattempo un altro gruppo dello Stato islamico prendeva di mira il villaggio di Al-Hayshê a est della città di Ayn Isa. Qui l’attacco è durato a lungo, dalle 11 a mezzanotte e mezza. Nella prima mattina del 22, tra le 8 e le 10, veniva invece colpito il villaggio di Shikeyf, della città Sirin, mentre nel tardo pomeriggio, a sud ovest di Kobane, il villaggio di Qereqozax, veniva assaltato con armi pesanti e fuoco di artiglieria.
L’offensiva ad ovest
La risposta a questi attacchi concentrici, da parte della resistenza kurda, si è fatta attendere alcune ore. Il comunicato di guerra sottolinea che due delle organizzazioni della resistenza, YPG e YPJ (Unità di difesa delle donne) si sono coordinate conducendo un’offensiva da ovest della città di Ayn Isa, iniziata alle 16 del 22 novembre.
La controffensiva
Ayn Mixêra è stata raggiunte dalle forze kurde intorno alle 20,30, e a sera inoltrata, la controffensiva si sviluppava tra il monte Kezwan e la città al centro degli attacchi. Il resoconto dell’YPG parla di 20 jihadisti uccisi, due veicoli militari distrutti. A ciò si aggiunga una tonnellata di esplosivo sequestrata, come anche un Kalashnikov e vari binocoli termici.
Liberata la fabbrica di cotone
L’agenzia ANF News, in un notiziario di ieri ha comunicato, infine, che i combattenti delle Forze Democratiche Siriane (SDF) hanno liberato, nella parte ovest del Rojava, il villaggio di Melebiye, 10 km a sud della città di Hesekê, un’importante arteria strategica, dove vi è una fabbrica di cotone, la cui immagine simboleggia il risultato militare.
Le istanze di libertà
La guerra vera dunque non si combatte in Europa ma in Medio Oriente, e sono proprio i musulmani a difendere quei valori di libertà e democrazia incarnati nelle istanze delle donne e degli uomini kurdi. Ma le stesse istanze sono violentemente represse sulla striscia di terra che confina con il Rojava, nella parte turca. Lì attualmente vige il coprifuoco voluto dal sultano Erdogan, precisamente nella città di Nusaybin.
Polizia e soldati, ormai da giorni, uccidono civili, tra cui una donna incinta, e un giovane diciottenne: in tutto 7 morti e 15 feriti. I rappresentanti del partito HDP (Partito Democratico Popolare) Gülser Yıldırım e Ali Atalan sono entrati in sciopero della fame per indurre le autorità turche a rimuovere il coprifuoco e interrompere gli attacchi contro la popolazione civile.
Inoltre le truppe turche hanno attaccato e demolito un cimitero dove sono seppelliti uomini della resistenza kurda, in un villaggio nel distretto di Lice, in segno di disprezzo nei confronti della causa kurda.
Le intimidazioni ai kurdi in terra turca
Nella sera di domenica, Selahattin Demirtaş co-presidente del HDP, il partito filo-kurdo presente nel parlamento turco, mentre viaggiava nella sua auto ufficiale, è stato vittima di un attentato intimidatorio. Qualcuno ha infatti sparato sul lunotto posteriore, considerato che la macchina è antiproiettile.
Ferhad Derik, è invece un membro dell’esecutivo del “Movimento per una Società Democratica” (TEV-DEM) del Rojava. Sempre domenica ha rilasciato una intervista all’agenzia di stampa ANHA, nella quale dichiarava di essere in possesso dei documenti che comprovano le responsabilità del governo di Ankara, nell’aver appoggiato l’Isis contro la resistenza kurda. Questa accusa era maturata quest’estate, da quando cioè Erdogan impediva alle forze kurde di andare in soccorso delle donne di Kobane che combattevano contro lo Stato islamico.
Aperti i valichi all’Isis
Derik ha detto che questi documenti rivelano come la Turchia abbia aperto tutti i valichi di frontiera ai membri dello Stato islamico, fornendo armi, munizioni e supporto logistico. Una verità che tutto il mondo occidentale conosce, ma su cui a nessuno è convenuto soffermarsi, tranne che alla Russia, poiché, per un suo calcolo, lavora affinché il regime di Assad rimanga in vita…
La storia dei valichi aperti spiega il perché degli atteggiamenti ambigui sulla gestione delle frontiere con la Siria, a partire dai foreign fighters per finire al caso misterioso della giornalista, che indagava sull’Isis, trovata morta all’aereoporto di Istanbul, che fino alla fine le autorità turche hanno cercato di insabbiare miseramente…
Il sultano del terrore
La notizia arrivava il 30 novembre 2015: “Come sapete, è stata aperta un’inchiesta sugli articoli che abbiamo pubblicato a proposito dei camion dei servizi segreti che trasportavano armi. A denunciarci è stato il Presidente in persona. Siamo venuti qui per difendere il giornalismo, per difendere il diritto dei cittadini a essere informati, il diritto di sapere la verità se il governo mente. Se il Paese subisce una determinata minaccia o è in pericolo, un giornalista deve dirlo”.
Le armi vendute all’Isis
Queste sono le dichiarazioni di Can Dundar ed Erdem Gül, rispettivamente direttore e capo della redazione del quotidiano di Ankara Cumhuriyet. Solo due giorni dopo i due sono stati arrestati. Ad Istanbul, ad Ankara, a Smirne, Antalya, Eskisehir, Kocaeli, Mersin migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro il potere assoluto di Erdogan, che ormai si comporta come un vero califfo mediorientale.
L’accusa che viene mossa ai giornalisti è quella di aver fabbricato false prove, quando solo due giorni prima il sultano turco diceva pubblicamente: “che differenza fa se c’erano armi o no”? Le armi indirizzate alle frange turcomanne sul territorio siriano, fotografano, ancora una volta, la situazione nel confine tra Siria e Turchia, controllato dai servizi segreti MIT: è quello infatti il vero snodo di uomini e risorse che circuitano in quell’area. Su quel confine si è infatti strutturata una “santa alleanza” tra Erdogan e l’Isis, tra scambio di petrolio contrabbandato, armi, e libero accesso o accesso facilitato dei foreign fighters, tra supporti logistici e controllo delle vie d’accesso.
L’omicidio in diretta
In questo contesto l’omicidio in diretta Tahir Elci, il leader degli avvocati kurdi ammazzato in un agguato nella città di Diyarbakir, a telecamere accese, racconta un altro pezzo di questa tragica storia, legittimata dal cinismo e dal doppiogiochismo dei paesi occidentali. L’uomo stava parlando in una città dove il governo turco ha imposto il coprifuoco, poiché ad alta densità di cittadini kurdi, che chiedono il riconoscimento della loro identità.
Occupandosi di diritti umani, Tahir Elci stava cercando di chiarire al mondo che la causa kurda non c’entra niente col terrorismo, anche perché i kurdi sono gli unici che sul campo in Siria combattono e vincono contro l’Isis. Ad un certo punto la postazione da cui parlava veniva assalita. Le sue guardie del corpo ingaggiavano un conflitto a fuoco e l’uomo rimaneva ucciso.
La manipolazione delle prove
E allora il governo turco chi accusa di essere il responsabile dell’omicidio? Proprio il PKK, cioè il partito kurdo di cui Elci aveva preso le difese… Davvero da non credere… Dopo l’uccisione nuove manifestazioni di protesta a Istanbul sono state represse dalle forze dell’ordine. Ma in quello stesso momento arrivava la notizia che l’accordo tra il sultano Erdogan e l’Unione Europea, veniva siglato: tre miliardi di euro, e accelerazione dell’adesione all’Unione Europea della Turchia.
La zona cuscinetto
In cambio, i rifugiati siriani che scappano da una guerra che lo stesso Erdogan contribuisce a foraggiare, saranno fermati in una zona cuscinetto al nord della Turchia, per impedirne l’ingresso in una Europa che non esiste più… Un’Europa che ipocritamente piange le vittime dello stragismo parigino, inventandosi una guerra di civiltà che fa comodo a coprire interessi di parte e inettitudine politica…
Marco Marano
Le fonti
– Una trattativa per la transizione
FONTE e credit: Uiki Onlus
– Le minacce di Erdogan ai kurdi dentro e fuori la Turchia
FONTE: Euronews, Agi
Credits AGI
– Terrorismi mediorientali
– Labirinti dei segni
– La guerra di resistenza all’Isis del popolo kurdo
FONTI e credit: ANF, ANHA