Dalla rabbia e dal coraggio può nascere la gioia

di Renato Amata e Marco Marano

L’11 marzo è una data importante per Bologna, si commemora l’omicidio del militante di Lotta Continua Francesco Lorusso, avvenuta nel 1977, una ferita mai rimarginata. Riproponiamo una riflessione su quegli anni, da cui partirono alcune dinamiche sociali che oggi si sono massificate: dal precariato alle case occupate…

L’uso della forza per resistere

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Il movimento ‘77 é sempre stato raccontato quasi esclusivamente come la nutrice dei gruppi che hanno alimentato la cosiddetta “lotta armata”. Questo perché si è voluto dimenticare tutti gli altri aspetti che lo hanno contraddistinto. Il luogo simbolico dove il racconto diverge, rispetto alla pratica quotidiana di quegli anni, è lo scontro fisico. Da un lato c’è la narrazione istituzionalizzata dove la parola chiave è “violenza, come sinonimo di lotta armata”. Dall’altro c’è la prassi quotidiana di quegli anni, che nella lotta armata vedeva semplicemente un “minoritarismo dell’azione politica”, rivolta principalmente ad altre forme di attivismo. Qui le parole chiave sono: “uso della forza”.

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Ma occorre fare un salto indietro in questa storia per capire cosa significa uso della forza… Fino ai primi anni ‘70 la lotta di classe si identificava totalmente con il suo conducente, cioè la classe operaia, organizzata seguendo l’evoluzione dello scontro storico tra borghesia e proletariato, che in Italia aveva nel PCI il punto di riferimento ideologico e la sua direzione strategica. Nell’arco di trent’anni il partito comunista era passato dalla fugace tentazione di una presa del potere tramite le armi dei partigiani al continuo fronteggiarsi con la Democrazia Cristiana, rappresentante della borghesia al potere, in ossequio al quadro internazionale e agli sviluppi della guerra fredda. In tal senso le forme di lotta operaia dovevano essere contenute nei margini della rappresentanza sindacale.

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Il 68 aveva introdottosu quella scena altre figure: gli studenti e gli impiegati. Nuovi elementi che in qualche modo stravolsero la sinistra mondiale e, in parte, quella italiana. Da quel momento l’uso della forza, di cui è parte integrante il suo rovesciamento nella versione pacifista del “sit-in”, divenne l’elemento qualificante delle modalità di lotta espresse dai vari movimenti, a volte come prioritario, spesso “unica possibilità di resistenza”.

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Ritroviamo, nel nostro racconto, l’uso della forza per resistere, come pratica di sopravvivenza sociale. Solo che a quel tempo, a differenza di oggi, la protesta popolare trovava nell’azione delle piazze il momento di rottura. Di conseguenza oggi è più facile la criminalizzazione attraverso il racconto, poiché i corpi sociali costretti a resistere sono “slacciati” gli uni dagli altri: viene a mancare il momento di rottura.

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In ogni caso sino alle ultime fiammate operaie, nella metà degli anni settanta, l’uso della forza era competenza di due fronti opposti: le organizzazioni operaie sindacali e le forze dello stato. Il Servizio D’Ordine (SDO) era formato dagli uomini più forti fisicamente ma anche più docili ideologicamente o più convinti, quindi più fedeli e rassicuranti. Si muoveva sul modello bolscevico del responsabile militare seguito da un responsabile politico.

I gruppi della sinistra extra parlamentare si adeguarono al modello SDO, anche per garantire la sicurezza negli spezzoni di corteo durante le grandi manifestazioni che, spesso, dovevano guardarsi dalle provocazioni poliziesche o dagli agguati dei militanti fascisti. Non lontani gli anni di Reggio Emilia e i suoi morti, delle battaglie di piazza contro il governo Scelba, delle ultime cariche di cavalleria contro gli operai, si procedeva verso l’innalzamento dello scontro.

Un nuovo mood di aggregazione

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Tra il 1976 ed il ’78, principalmente a Bologna, avvenne quel cambiamento che in realtà connota il movimento ’77 nel suo complesso e lo rende originale rispetto al prima e al dopo… Le battaglie per le autoriduzioni prima di bollette luce, gas, telefono e poi di cinema e ristoranti e concerti, avevano prodotto un nuovo scenario, cioè la nascita di piccoli e svariati gruppi con una dimensione organizzativa anche autonoma, che si ritrovavano insieme in assemblea, per condividere le istanze politiche e organizzative del movimento. L’elaborazione teorica aveva individuato un nuovo soggetto sociale prodotto dalla feroce crisi di quegli anni: il movimento dei non garantiti. Era composto da studenti senza prospettiva di lavoro, operai, disoccupati, femministe, senza casa e proletariato giovanile prodotto in periferia dall’urbanizzazione selvaggia del periodo.

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Uno degli elementi  di questo processo di trasformazione risiede nella battaglia contro il cosiddetto “leaderismo”, che vide soprattutto il movimento femminista condurre una intensa lotta politica, subito ripresa dal movimento. Così, i gruppi organizzati o i singoli che facevano riferimento alle varie sigle si arresero immediatamente di fronte all’evidente autonomia del movimento stesso: non più verticismi di tipo “bolscevico”. L’assemblea diventava la sede effettiva delle decisioni. Non restò loro che liquefarsi nel nuovo mood di aggregazione: i collettivi universitari o operai diventarono presto collettivi di amici, di abitanti dello stesso palazzo, della via, rione, quartiere…  E’ altresì vero che questo significò arricchimento della capacità teorico-organizzativa del movimento, a cui fornirono infatti un grande apporto in termini di esperienza e capacità tattica nella gestione dei momenti di massima tensione e scontro.

Le nuove forme di lotta politica

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Gruppi informali o di interesse culturale diventarono presto prevalenti rispetto alle classiche organizzazioni della sinistra extra parlamentare, ormai in prognosi riservata. Finirono per organizzarsi in modo autonomo ma con il massimo rispetto per le decisioni della maggioranza in assemblee numerosissime. Potevano ritrovarsi prima per una riunione di una rivista e poi nello stesso cordone di corteo. In definitiva era finito il tempo degli specialisti.

Due nuovi elementi entravano a far parte della lotta politica: l’uso della tecnologia e le tecniche di sabotaggio. Sul primo versante l’esperienza di Radio Alice dà il senso del racconto di chi in quegli anni si discostava dal minoritarismo della lotta armata per inseguire un modello di comunicazione di massa dal basso. A ciò si aggiunga il senso di una comunità finalmente connessa e riconoscibile nel linguaggio. Dall’altro lato le tecniche del sabotaggio passavano da azione tipica della “catena di montaggio” a pratica di sopravvivenza. Gli obiettivi erano: centraline del gas, luce, semafori, telefoni, cabine telefoniche svuotate, biglietti di viaggio falsificati.

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In realtà c’è una terza forma di lotta che lega Bologna con il movimento di quegli anni, relativamente all’uso delle performances teatrali. Introdotta con l’ormai mitico drago del Dams nei giorni di carnevale, divenne pratica di rovesciamento del terreno di scontro.  Nei giorni successivi all’uccisione di Francesco Lorusso era assolutamente “proibitivo”, qualsiasi tipo di assembramento in strade o piazze, poiché la polizia prima di fermare qualcuno passava immediatamente alle maniere forti… Siamo immediatamente dopo a quelli che possiamo definire “i tre giorni dell’ira”, quando il ministro dell’interno Cossiga mandò i cingolati per le strade di Bologna al fine di fronteggiare la guerriglia urbana che dilagò spontanea alla notizia dell’omicidio.

Fu così che dentro il movimento bolognese, spesso seguendo l’iniziativa degli studenti del Dams e dei gruppi neo dadaisti, l’improvvisazione teatrale fu utilizzata come risposta di contrattacco alla repressione. Ci sono, in tal senso, degli esempi storici davvero emblematici: dalla biciclettata contro informazione nei quartieri, alle sfilate con i cartelli in fila indiana, alla banda che spezza il clima di tensione avviando, rompendone il divieto, i cortei a volte notturni o totalmente improvvisati.

Il tamburo degli echi risonanti

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Se la sorgente disoccupazione qualificata di massa faceva da sfondo ai temi dell’epoca, l’Italia degli anni settanta era un paese profondamente corrotto, in mano alle “consorterie nere”: Cosa nostra, P2, servizi deviati… Erano gli anni della strategia della tensione, dove il potere dello stato, e le conseguenti rendite di posizione che esso comportava, erano contesi attraverso le bombe nei treni, nelle piazze, nelle stazioni.

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In quei giorni del marzo ‘77 Radio Alice diventava una sorta di “tamburo degli echi risonanti”che informava i militanti sul territorio sui luoghi dove la polizia poteva intrappolarli. Poi venne chiusa, con quella straordinaria diretta che è possibile ascoltare su Youtube. Dalle analisi dei commentatori di quei giorni si evince che l’uccisione di Francesco Lorusso era comunque funzionale all’inasprimento della tensione nel paese, su tre piani… Innanzitutto per distrarre l’attenzione sul tema della corruzione del sistema democristiano, in particolare riferimento al caso Lockheed. Per distruggere poi la forza organizzata degli studenti, impedendo che arrivasse a prendere una connotazione politica insieme alla classe operaia, sostituendosi in qualche modo al partito comunista… Infine per aumentare la possibilità di mobilitazione delle forze dell’ordine finalizzate alla repressione.

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Credits: Enrico Scuro, Pippo Cannistrà

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