La prima manifestazione di protesta a Bologna dei cittadini etiopi residenti in Emilia Romagna, provenienti anche da Modena e Parma, ha mostrato i polsi incrociati per denunciare la brutalità del governo autoritario di Hailemariam Desalegn, primo ministro in carica
di Marco Marano
Bologna, 15 novembre 2016 – Quei polsi incrociati li aveva mostrati per primo l’atleta Feysa Lilesa durante le ultime olimpiadi. Da allora sono diventati il simbolo della protesta di tutti i cittadini etiopi del mondo contro l’attuale governo autoritario. Forse in quel momento, per la prima volta, ci si è interrogati su cosa sta succedendo in quel pezzo di Africa che fu colonia del regime fascista italiano. Anche perché è esattamente da un anno che Amnesty International e Human Rights Watch, le ONG per la difesa dei diritti umani, denunciano in modo sistematico la brutalità, con il picco di 800 morti, che sta usando sul suo popolo Hailemariam Desalegn, il capo del governo federale. Per questo migliaia di persone, soprattutto giovani, fuggono dal paese. Da inizio ottobre è stato istituito lo stato d’emergenza, con arresti di massa, limitazioni della libertà di stampa, chiusura di internet. Considerato che le forze di sicurezza sono direttamente sotto il comando del primo ministro, centinaia di persone sono trattenute all’interno di prigioni del tutto clandestine, poiché lì, a quanto sembra, possono più facilmente essere perpetrate le torture.
Selamawit è la promotrice della manifestazione che si è svolta domenica 13 novembre in piazza Ravegnana a Bologna. Sposata con un cittadino italiano, mamma di due figli è determinata a portare avanti la sua protesta per far sentire dall’Italia una voce libera in soccorso ai propri concittadini: «Da quando è in vigore lo stato d’emergenza, dopo le 18,00 la gente non può più uscire di casa, le città sono praticamente bloccate. Chiunque, trovato a circolare, viene fermato, perquisito e arrestato. Durante la perquisizione la polizia controlla il telefono cellulare per vedere il tipo di contatti di quella persona».
Gli eventi che portano allo stato d’emergenza iniziano nel novembre del 2015, cioè quando Desalegn propone un nuovo piano urbanistico di Addis Abeba che prevede l’espropriazione di vaste terre agricole dentro la regione degli Oromo, per inglobarle in una macro-regione il cui polo avrebbe dovuto essere proprio la capitale. Questo ha generato delle forti proteste popolari, che hanno indotto il premier a ritirare il progetto urbanistico. «L’idea del regime – sottolinea Selamawit – è quella di dividere il paese in regioni separate, attraverso diversi livelli di sviluppo. Questo determinerebbe zone più ricche disunite da quelle più povere, che verrebbero lasciate in balia di se stesse».
Fu questa la strategia utilizzata fin dal 1991, cioè dalla fine della guerra civile, dal vecchio primo ministro Meles Zenawi, morto nel 2012, di cui Desalegn ha preso l’eredità, iniziata proprio con la sua città: Tigray. Un’area su cui il vecchio presidente focalizzò le sue risorse, e da cui costruì una fitta rete di uomini a lui devoti nei posti chiave del sistema di potere. «In realtà questa città – continua Selamawit – è il centro delle dinamiche di regime, poiché i livelli più alti dell’establishment politico, diplomatico, finanziario, commerciale provengono proprio da lì. In tal senso questa città è quella che ha ricevuto negli anni uno straordinario processo di sviluppo economico, grazie al fatto che rappresenta il principale centro di potere del paese. E a Bologna c’è molta paura di esporsi poiché la maggior parte delle persone che risiede qui provengono da Tigray. Anche per questo si rifiutano di ammettere quello che sta accadendo nel nostro paese».
Sono queste le ragioni che spiegano il motivo per cui l’Etiopia è uno dei paesi più poveri del mondo, però la cosa strana è che negli ultimi anni ha registrato una crescita superiore ai paesi limitrofi, del 10 per cento, secondo la Banca mondiale. Considerato che due terzi della popolazione è analfabeta, i grattaceli, la nuova metropolitana e i grandi centri commerciali di Addis Abeba, sarebbero una contraddizione in termini se questi elementi non venissero contestualizzati allo scenario complessivo.
Ma quello dell’arricchimento di alcune regioni sulle altre è solo uno dei temi che investe l’Etiopia nel rapporto tra potere e cittadini. In realtà dietro vi è il tentativo della regione a cui fa riferimento Tigray, che rappresenta il 6 per cento della popolazione, di reprimere le istanze di libertà e sviluppo oltre che degli Oromo anche degli Amhara, che insieme rappresentano circa il 60 per cento dell’intera popolazione etiope. Per questa ragione anche dopo il ritiro del piano urbanistico di Addis Abeba, ambedue hanno continuato le manifestazioni di protesta per le strade del paese, per chiedere riforme al fine di migliorare le loro condizioni politiche, economiche e culturali. Per tutta risposta i leaders della comunità degli Amhara, nell’estate 2016, sono stati arrestati con l’accusa di svolgere attività criminali.
Da quel momento la repressione si è intensificata, centinaia di persone sono state arrestate clandestinamente, con la scusa da parte del governo che il dissenso fosse organizzato da fantomatici nemici stranieri, attivi sui social network, e come prassi di tutti i governi autoritari africani e mediorientali, gli oppositori sono stati connotati come terroristi con l’obiettivo di destabilizzare il paese. Così è stata respinta la richiesta di accogliere osservatori ONU per verificare la situazione degli abusi della polizia e dell’esercito. Leggiamo la motivazione ufficiale: «Non sono necessarie nuove presenze straniere in precise zone del paese, dal momento che l’Onu ha un cospicuo numero di caschi blu in Etiopia. Sarà il governo stesso ad avviare una propria inchiesta per stabilire se la polizia abbia fatto ricorso a un uso eccessivo della forza».
Il viso di Selamawit si tinge di rabbia e sofferenza, non riesce più a sopportare il martirio che il paese dove è nata sta subendo, la sua voglia di riscatto per l’Etiopia ormai è dichiarata e non c’è niente e nessuno che possa farle cambiare idea. Sente di doversi impegnare, mentre il marito le sta accanto con dolcezza, in questo suo dolore infinito: «Stanno rastrellando le abitazioni private, casa per casa, in modo capillare, in cerca di armi. Hanno staccato le parabole per lasciare i cittadini senza informazioni. Per chi si rifiuta di togliere le parabole, ci pensa la polizia ad eliminarle».
L’uso della forza per far tacere il dissenso non è sicuramente legato alle proteste degli Oromo e degli Amhara. Le stesse elezioni del maggio 2015 ne rappresentano un incubatore. Sono andati a votare 36 su 94 milioni di etiopi, nelle prime elezioni dopo la morte nel 2012di Meles Zenawi. La coalizione al potere del primo ministro Hailemariam Desalegn ha ottenuto 546 seggi su 547, cosa tecnicamente impossibile in un paese dove le dinamiche democratiche fossero regolari. C’è da dire che l’Ethiopian people’s revolutionary democratic front (Eprdf), il partito dei due presidenti che si sono succeduti, avevano al loro fianco altre 55 formazioni politiche fantasma, finalizzate a diluire il voto, dando la percezione che l’offerta elettorale fosse varia. Gli unici due partiti di opposizione, afferenti alla sfera del centro-sinistra, Medrek e Semayawi, sia prima che dopo le elezioni sono stati a dir poco perseguitati. Ecco come il rapporto di Amnesty International del 2015 spiegava la situazione: “Le elezioni generali di maggio si sono svolte in un contesto di misure repressive nei confronti della società civile, dei mezzi d’informazione e dell’opposizione politica, facendo tra l’altro uso eccessivo della forza contro manifestanti pacifici, disturbando le campagne dell’opposizione politica e i loro osservatori incaricati di seguire le operazioni di voto”. E ancora: “Quattro tra membri e leader d’opposizione sono stati uccisi dopo le elezioni. Samuel Aweke, fondatore del partito Semayawi, è stato trovato morto il 15 giugno nella città di Debre Markos. Pochi giorni prima della sua morte aveva pubblicato un articolo nel quotidiano del suo partito, Negere Ethiopia, in cui criticava il comportamento delle autorità locali, della polizia e di altri agenti di sicurezza. Il partito Semayawi ha affermato che Samuel Aweke aveva ricevuto minacce da parte delle forze di sicurezza dopo la pubblicazione dell’articolo”.
E mentre scorrono le immagini di tutte queste efferatezze c’è uno scatto che sembra surreale. E’ il 14 marzo del 2016: il Presidente della Repubblica Mattarella è in visita ufficiale in Etiopia. Il tema è quello di aiutare dal punto di vista economico i paesi da dove fuggono i migranti. Le sue frasi, nel quadro del nostro racconto, fanno venire i brividi, poiché distanti anni luce dalla realtà: «Per affrontare seriamente i fenomeni migratori occorre partire dalle condizioni che li determinano. In altre parole, è necessario intervenire nei paesi d’origine migliorando le condizioni locali anche perché nessuno lascerebbe la propria terra se potesse vivere in pace e in maniera accettabile nei paesi dai quali proviene».
Selamawit non ha paura di affrontare la realtà, sente dentro di sé il dovere impellente di fare qualcosa, anche se le hanno già detto di non tornare più nel proprio paese poiché è stata riconosciuta e inserita in una sorta di lista nera. Certo lei ha un po’ di timore per i suoi parenti, ma non demorde, farà nascere a Bologna il Coordinamento Etiopia Democratica Emilia-Romagna, nato proprio dalla manifestazione che si è svolta domenica: «Stanno terrorizzando la gente, non solo nel paese ma anche all’estero. Anche qui in Italia molti cittadini etiopi hanno paura di fare sentire la propria voce per timore di ritorsioni nei confronti delle loro famiglie. Tra l’altro c’è da dire che esiste una rete tra consolati e ambasciata di informatori sulle persone che svolgono attività di opposizione al regime. Ma questo non deve fermarci, perché se nessuno parla l’Etiopia non vedrà mai la luce della democrazia…»