di Marco Marano
Gasdotti, privatizzazioni, speculazioni sono i dispositivi dei governi neoliberisti per mettere le mani sui territori abitati dalle popolazioni indigene che, nel silenzio mediatico, combattono per la loro sopravvivenza.
Bologna, 28 settembre 2017 – E’ storia dei nostri giorniquella delle antiche popolazioni native delle americhe a cui viene espropriata la terra dove sono nati i propri avi per finalità speculative e di sfruttamento delle risorse naturali. Nel momento in cui gli stati sposano politiche neoliberiste e corruttive lo sfruttamento dei suoli è uno dei principali vettori di arricchimento dei sistemi politico-economici. Sarebbero 2,5 miliardi le persone appartenenti a popoli nativi che abitano più della metà del Pianeta. Solo un quinto di loro ha riconosciuto il diritto di proprietà. Gli altri vengono, repressi, perseguitati, deportati, aggrediti, picchiati. Donne, uomini, anziani, famiglie a cui il sistema capitalistico non riconosce nascita, storia, diritti…
Un grido di dolore dall’Amazzonia peruviana
“Da 45 anni stiamo vivendo con l’inquinamento petrolifero causato dall’irresponsabilità delle aziende e dello Stato. Da decenni abbiamo visto le nostre acque, i suoli e le risorse danneggiati con impunità”. Questo grido di dolore proviene dai membri delle comunità indigena di Achuar che vivono nell’Amazzonia peruviana. Un popolo di 12.500 persone che vive in una sorta di compartimentazione dal resto del paese. Cercano di sopravvivere tramite agricoltura e allevamento, attività produttive queste che non rispondono ai fabbisogni alimentari della comunità. Non possono usufruire di servizi sociali, non esistono sistemi di trasformazione e lavorazione dei prodotti. Gli spostamenti in canoa rendono problematica la possibilità di approvvigionamenti.
In tal contesto rientra l’azione delle multinazionali che, attraverso il disboscamento relativo all’accaparramento di legname, ma soprattutto con l’estrazione di greggio, non solo ha impoverito il territorio ma lo ha inquinato. Così nei giorni scorsi la loro protesta si è fatta sentire in modo molto plateale, poiché la comunità Achuar ha occupato cinquanta pozzi petroliferi di proprietà dell’azienda estrattiva canadese “Frontera Energy Corp“e una centrale elettrica. Una storia che avrà sicuramente strascichi in termini di repressione armata delle istanze di sopravvivenza di questa piccola comunità.
La pirateria territoriale nell’Amazzonia brasiliana
L’Amazzonia è sicuramente la chiave di lettura rispetto a questo rinvigorito fenomeno di rapace sfruttamento del territorio e repressione dei popoli che vivono in queste terre ancestrali. Quello che infatti è successo nella zona amazzonica brasiliana ha davvero dell’incredibile. Il presidente Michel Temer, inquisito per corruzione, colui il quale è salito al potere grazie ad un golpe parlamentare ai danni della presidentessa eletta dal popolo Dilma Rousseff, si è reso protagonista di una nuova azione di “pirateria territoriale”. I suoi stretti legami con i grandi industriali dell’estrazione mineraria l’hanno portato ad emettere un decreto che da un lato amplifica la gamma di estrazioni e dall’altro taglia i finanziamenti a quelle agenzie ingaggiate per proteggere la vita della popolazione indigena. Tutto questo in una delle più immense riserve naturali del mondo.
“Renca” è la Riserva nazionale di rame, un’area immensa di 4,7 milioni di ettari ricca di risorse variegate. Lì ci sono ben nove aree protette, con sette unità territoriali di conservazione e due terre indigene. Con quel decreto Temer ha dato il via libera alla corsa delle miniere estrattive verso un business milionario, promotore della deforestazione ulteriore e dell’annientamento delle popolazioni indigene.
La Renca confina con gli stati di Amapa e Para, e fu creata dalla dittatura militare nel 1984. Una ventina di società estrattive si sono interessate al business per oro, rame, nikel, manganese… Il presidente Temer ha ovviamente motivato lo sventramento amazzonico con la necessità di attrarre investimenti stranieri per far fronte alla recessione, garantendo che le aree degli indigeni non sarebbero state toccate. Come se i problemi delle popolazioni native in Amazzonia non ci fossero mai stati. Poi, la decisione di un giudice ha formalmente fermato questo vero e proprio atto di pirateria istituzionale. Si chiama Rolando Valcir Spanholo, e fa parte del tribunale federale di Brasilia. Ha sospeso il decreto, accogliendo una petizione popolaredelle organizzazioni ambientaliste, poiché una decisione come questa deve essere adottata non per decreto ma per votazione congressuale.
E’ di poche settimane fa l’ultimo atto atroce compiuto ai danni di 10 indigeni brutalmente uccisi dai minatori che lavorano nei giacimenti di oro. Hanno smembrato i loro corpi, vantandosene pubblicamente. Crimini questi che fanno da supporto alla sciagurata strategia del presidente golpista sull’annientamento di quel polmone del mondo che è la foresta amazzonica.
“Terroristi” perché vogliono sopravvivere
Quella dei Mapuche è ancora un’altra storia. Si tratta di un popolo indigeno della Patagonia cilena. “Resistencia Ancestral Mapuche” è l’organizzazione a cui hanno dato vita per difendere i loro interessi, cioè la loro sopravvivenza in quanto gruppo etnico. Le loro attività si sono contraddistinte negli ultimi anni per l’occupazione delle terre e i blocchi stradali. Questo è bastato al governo cileno per etichettarli come terroristi… Intanto la loro terra è stata venduta a grandi industriali europei, tra cui l’italiano Benetton, i quali usano il territorio per lo sfruttamento principalmente del legno. Per reprimere in modo violento questo popolo il governo cileno utilizza una legge anti-terrorismo creata da Pinochet. Questo consente ai carabineros di entrare nelle case, arrestare la gente senza accuse precise, usando violenza anche su anziani e donne, eliminando insomma qualsiasi diritto civile basico. Stiamo parlando del Cile democratico di Michelle Bachelet…
La comunità mapuche sorge nei dintorni della città di Temuco, capitale della regione dell’Araucania, dove vi è una delle più importanti area naturale protetta, quella della valle di La Araucanía. Gli abitanti della regione sono prevalentemente di origine europea, con antichi insediamenti spagnoli e tedeschi.
Il 23 settembre vi è stato l’ennesimo assalto delle forze dell’ordine, polizia e carabineros, alle case dei leader della comunità. Il primo è stato Héctor Llaitul, portavoce del CAM, Coordinadora Arauco Malleco, privi di mandato giudiziario hanno perquisito la sua casa e sequestrato computer, libri, documenti e cellulari. Poi è stato arrestato e portato a Temuco, dove gli sono stati comunicati gli estremi del suo fermo. Cosa peggiore è successa nello stesso pomeriggio a Javiera Llaitul: “Abbiamo subito un raid mentre eravamo in casa nostra, quando sono entrati violentemente i carabineros, senza mandato, niente… Ci hanno spinti, hanno picchiato me e mia madre e hanno portato mio padre al comando di Temuco “ . Una decina gli arrestati trasferiti tutti nel carcere di Temuco. Le accuse, a quanto è stato riferito ai parenti, sarebbero partite in ottemperanza ad un ordine emanato dal tribunale di garanzia del distretto sud della regione di Araucania, in riferimento alle indagini per dei camion dati alle fiamme in seguito ad un blocco stradale.
Il mostro in prima pagina
E’ la storia di Werkén Hugo Melinao a raccontare perfettamente come il livello di repressioneindiscriminato è ormai sfociato nella pura manipolazione della realtà, esautorando i diritti inalienabili di cittadinanza, ormai sistemicamente negati alla comunità mapuche. Era il 24 gennaio di quest’anno quando la comunità ricevette il solito assalto violento da parte delle forze dell’ordine. Werkén Hugo Melinao veniva arrestato con l’accusa di aver organizzato una “scuola di guerriglia” con l’uso di armi ed esplosivi. Era in corso una manifestazione culturale con la presenza di vari artisti. Quel giorno vennero persino arrestati, in quella che venne definita “Operazione Toro”, donne e bambini, tra cui due neonati. I media dipinsero Werkén Hugo Melinao come una sorta di guerrigliero/terrorista. Proprio due giorni or sono è stato scagionato da ogni accusa, dopo otto mesi di detenzione; queste le parole del fratello: “Abbiamo sentimenti contrastanti, siamo ovviamente molto soddisfatti per l’assoluzione, che era anche unanime, ma chi può recuperare il tempo perduto in prigione? Chi riparerà i danni che hanno fatto a noi come famiglia? Infatti mio fratello è stato imprigionato in un’operazione gigante, accusato dai media di avere una scuola di guerriglia nella comunità. Ora è stato dimostrato che tutto era falso, ma i media oggi non dicono nulla“.
L’ultima battaglia della nazione Sioux
Un oleodotto lungo duemila chilometri i cui costruttori sono un raggruppamento di aziende dell’energia nazionali e multinazionali, per trasportare greggio dal nord Dakota all’Iowa fino all’Illinois. Un paio d’anni di lotte e barricate si sono susseguite in seguito a questa impresa imprenditoriale americana, poiché l’impianto passa per il Dakota dove vi sono le riserve dei Sioux, la più importante e Standing Rock. Obama lo aveva fermato poiché questo oleodotto mette a rischio le falde acquifere delle antiche riserve dei nativi. Poi è stato eletto Trump e i lavori sono ripresi a pieno ritmo. La mission è quella di trasportare il 470.000 barili al giorno di greggio, ammortizzando i costi, dalla fonte estrattiva di “Bakken Formation”, in nord Dakota. Il progetto si chiama “Dakota Access Pipeline”, un’opera di 4 miliardi di dollari.
Come volevasi dimostrare, fin dall’inizio delle proteste, il 26 settembre vi è stata la denuncia da parte del capo Tribù di Standing Rock, congiuntamente ad alcuni proprietari terrieri, che i costruttori starebbero violando le regole d’ingaggio. In primo luogo per ciò che concerne il disboscamento, poiché proprio sul tracciato da cui passa l’oleodotto si sarebbe dovuta sviluppare la nascita di nuovi alberi. Cosa ancora più grave sono i ritrovamenti di reperti della popolazione sioux che non sono state denunciate dall’impresa di costruzione.